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La Dolce vita di Bruno Borghesi

Lo stile senza tempo dell'accoglienza secondo il restaurant manager del Mirabelle di Roma

Lo stile senza tempo dell'accoglienza secondo il restaurant manager del Mirabelle di Roma

Di Massimiliano Sarti, 30 Gennaio 2014

Bruno Borghesi è un vero maestro di stile: figlio d’arte, con l’hôtellerie nel sangue, suo zio era il direttore del Brufani di Perugia, ha vissuto tutto il glamour di oltre mezzo secolo di storia italiana, frequentando alcuni dei locali più charmant della penisola. La sua carriera inizia nel 1956, al Le Roi di Milano, dove viene invitato a lavorare da un amico capocomico di teatro. Qualche anno prima, infatti, aveva persino girato un film, per cui era stato premiato come miglior attor giovane. Successivamente si sposta in Versilia, dove crea il Caprice di Viareggio, per poi seguire l’apertura dell’Open Gate di Firenze, prima di acquistare, nel 1965, la Birreria Moretti di Roma e di trasformarla nel San Souci: uno dei ristoranti più rinomati della Dolce vita capitolina, la cui insegna avrebbe campeggiato in seguito anche a New York e a Los Angeles. Nella sua lunga carriera Borghesi ha così modo di frequentare personaggi del calibro di Fred Bongusto e Mina, di conoscere la Lollobrigida, la Loren, la Bergman e la Rossellini, nonché di entrare in contatto con numerosi politici importanti, tra cui Fanfani, Saragat, Cossiga e Ronald Reagan. Oggi, dopo aver ceduto il Sans Souci nel 1999, continua la propria carriera nel bel mondo e nell’eccellenza gastronomica, alla guida del ristorante Mirabelle, dell’hotel Splendide Royal di Roma. «Quando vendetti il Sans Souci, meditavo di ritirarmi: ero un po’ disamorato e gli orari cominciavano a farsi pesanti», racconta lo stesso Borghesi. «Poi ho conosciuto Roberto Naldi (il titolare del gruppo proprietario dello Splendide Royal, ndr) e ci siamo subito intesi. Ho capito che avevo ancora voglia di sentirmi vivo e che il Mirabelle sarebbe stato il posto perfetto per me».

Domanda. Le manca qualcosa, oggi, dello splendore della Dolce vita di un tempo?
Risposta. Assolutamente no: sono abituato a vivere il presente e ad avere un buon rapporto con l’oggi, per quanto i tempi attuali possano essere complicati.
D. Come è cambiato il modo di accogliere i clienti in tanti anni di professione?
R. Nel profondo della mia anima non è mutato nulla: io continuo ad accoglierli allo stesso modo in cui lo facevo quando ho iniziato questo mestiere. Ma devo ammettere che i modi e le sensibilità sono cambiate: oggi c’è sicuramente meno attenzione all’eleganza; lo stile è decisamente più casual. C’è però ancora chi sa riconoscere la classe di un tempo. Ed è proprio a quest’ultima categoria di persone che noi ci rivolgiamo, continuando a lavorare sui valori senza tempo della gentilezza e della cortesia.
D. Ultimamente si sente parlare spesso di crisi vocazionale dei camerieri: nonostante il periodo non facile, pare sia difficile trovare delle risorse di qualità. Si dice anche che i giovani di oggi siano diversi da quelli di un tempo. Cosa ne pensa lei, che ha attraversato la vita professionale di almeno tre generazioni di professionisti di sala?
R. Sicuramente oggi l’approccio al lavoro, e alla vita in generale, sembra essere più leggero rispetto a un tempo. Io, però, mi ostino a formare le nuove leve del Mirabelle alla vecchia maniera: dall’aspetto esteriore, taglio di capelli e cura della divisa in primis, al modo di rispondere al cliente. E fino a che non si raggiungono determinati standard, il contatto con i clienti è ridotto al minimo indispensabile. Ai nuovi arrivati, di cui intuisco le potenzialità, consegno anche un mio personalissimo manuale dell’ospitalità.
D. Di che si tratta?
R. Di una preghierina del cameriere, che spiega come si lavora qui al Mirabelle: si parte dai momenti fondamentali del benvenuto e della sistemazione dell’ospite al tavolo, per poi passare a delle semplici norme di savoir faire: mai far attendere l’ospite, salutarlo per primi e, quando è possibile, personalizzare il saluto, stare attenti alla disposizione dei tavoli. Con una regola d’oro da non dimenticare: mai abbandonare l’ospite.
D. Per personalizzare il servizio, occorre però conoscere bene la persona che si ha di fronte: come si fa a inquadrare un nuovo cliente nei pochi istanti della prima accoglienza?
R. Con il mestiere: ogni nuovo arrivato va osservato fin dal momento in cui varca la porta. Si guarda tutto: il modo di vestirsi, le scarpe, il taglio dei capelli; è nel nostro Dna capire immediatamente le persone. Certo, a volte capita di sbagliarsi, ma con il giusto scrupolo e un’adeguata attenzione si evitano sempre le gaffes più clamorose.
D. È quando si ha a che fare con le richieste impossibili?
R. «Siamo mortificati ma non possiamo proprio esaudire la sua richiesta». Semplice, no? Ma capita raramente, perché se i clienti sono accolti con stile e cortesia, le persone maleducate si sentono a disagio e tendono istintivamente ad adeguarsi al contesto in cui si trovano.
D. In altre parole, siete voi a guidare le danze. Professionista di sala, dunque, si nasce o si diventa?
R. Io sono figlio di questo lavoro. Però credo che un po’ si nasca e un po’ ci si perfezioni con l’esperienza. E soprattutto si impara ad adeguare le proprie maniere ai tempi e alle generazioni che cambiano.
D. In passato mi è capitato di sentire molti chef paragonare il ristorante a un teatro. Lei che è stato anche attore, cosa pensa di questo paragone?
R. La sera, quando comincia il lavoro, per me è come aprire un sipario e cominciare uno spettacolo. Ai miei ragazzi io dico sempre: fuori di qui potete fare quello che volete, ma quando siete su questo palcoscenico dovete essere perfetti.
D. Anche nei rapporti con la cucina?
R. Assolutamente sì. Il ristorante è anche una grande famiglia, in cui deve vigere amicizia fraterna, collaborazione, rispetto ed educazione. Inutile però negarlo: ci vogliono pure nervi saldi ed elastici; quando c’è un problema, e capita anche nelle migliori famiglie, bisogna avere la capacità di lasciar perdere e di rimandare il confronto a sipario chiuso.
D. Tra gli albergatori c’è una questione da tempo irrisolta: come rendere redditizia la ristorazione in hotel. Qual è la sua ricetta?
R. Aprire il locale alla clientela esterna. Ma, per riuscirci, servono dei professionisti con esperienza nei ristoranti da strada. È una questione di sensibilità: perché il rapporto che si instaura con i commensali è davvero speciale. Assomiglia, forse, a quello che un tempo avevano i concierge e i barman dei grandi alberghi, così legati ai propri ospiti da arrivare a prestare loro persino dei soldi, quando qualcuno non era riuscito a passare in banca. Qui al Mirabelle, per esempio, vengono ancora i figli e i nipoti dei miei clienti del Sans Souci. Per costruire un legame tanto forte, occorre però tempo e pazienza. E soprattutto la capacità di trattenere il personale chiave: sempre qui al Mirabelle, chef de rang e maître di sala sono con me da 14 anni.
D. Per concludere: cosa le sarebbe piaciuto fare se non avesse lavorato nella ristorazione?
R. Non lo so: credo nient’altro. Forse l’architetto, visto che ho studiato all’Accademia delle belle arti, ma poi ho cominciato a lavorare…

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