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Il Paese delle potenzialità inespresse

All'orizzonte si aprono però spiragli di novità: da oltre confine cresce in particolare l'interesse dei nuovi concept lifestyle e del lusso accessibile

All'orizzonte si aprono però spiragli di novità: da oltre confine cresce in particolare l'interesse dei nuo

Di Massimiliano Sarti, 3 Maggio 2018

Un appeal senza confini, non accompagnato da infrastrutture e da un contesto di mercato adeguati a sfruttare appieno tutte le potenzialità della destinazione. Gli anni passano, ma il refrain per l’Italia del turismo fatica a cambiare: una meta desiderata da tutti, in cui investitori e grandi gruppi internazionali stentano tuttavia a svilupparsi come vorrebbero. Eppure, qualche segnale d’inversione di tendenza comincia a balenare all’orizzonte. Certo, si potrebbe obiettare, come non è la prima volta in cui si aprono spiragli di novità, poi puntualmente smentiti dalle evoluzioni successive…
Fatto sta, però, che all’ultimo forum Tourism Investment, organizzato da Pkf Italia durante il recente Fuorisalone milanese, si sono viste realtà internazionali fino a poco tempo fa difficilmente accostabili alla Penisola: i due panel dedicati agli investimenti alberghieri in Italia, oltre a nomi storici del nostro mercato come Meliá e Hyatt, comprendeva infatti investitori quali gli statunitensi di York Capital Management e i francesi di Boissee Finances, nonché gruppi innovativi come gli olandesi di CitizenM (già peraltro invitati alla presentazione del rapporto Horwath Htl), gli austriaci di Wombat’s, gli americani di Standard International e i tedeschi di Ruby Hotels & Resorts. Tutti concept particolarmente freschi, che si rivolgono alle nuove forme della domanda contemporanea di ospitalità e che avrebbero, così sostengono, la ferma volontà di esplorare il mercato tricolore.

Spagna – Italia: un confronto impietoso

Al di là delle intenzioni lodevoli, la tavola rotonda si è in ogni caso aperta con un report Real Capital Analytics, che ha ricordato quanto sia importante rimanere con i piedi ben piantati a terra: Tom Leahy, senior director Emea Analytics della società di consulenza internazionale, ha infatti sottolineato quanto ampio sia ancora il gap reale tra le potenzialità del nostro sistema Paese e la sua reale attrattività attuale, in un confronto, a tratti impietoso, tra i numeri italiani e quelli spagnoli. L’anno scorso, in particolare, a livello globale gli investimenti alberghieri totali hanno toccato i 58 miliardi di euro, di cui circa un terzo destinati al Vecchio continente. In tale contesto, l’area dell’Europa mediterranea ha raccolto più di 5 miliardi di euro, di cui oltre 4 miliardi sono però andati alla sola Spagna.
Se si considera che la regione comprende anche il Portogallo, vero astro nascente del turismo europeo, nonché la Grecia, la Croazia e altri ancora, si capisce bene come la fetta riservata all’Italia sia piuttosto piccola e comunque non superiore al miliardo di euro. Ma è tutto il mercato real estate tricolore a non essersi ancora ripreso dalla crisi Lehman Brothers: secondo i dati generali elaborati da Real Capital Analytics, che quindi includono anche altri settori come il retail, i prezzi degli immobili nel nostro Paese sono infatti scesi anche nel 2017, seguendo una traiettoria negativa che prosegue ormai ininterrotta dal 2008. Al contrario, la Spagna, in cui i valori degli immobili hanno subito un vero tracollo tra 2012 e 2013, ha saputo invertire la parabola a partire dal 2014 e ora sta lentamente ritornando sui livelli pre-crisi.
A confermare la scarsa maturità del mercato italiano, ha proseguito Leahy, c’è poi un’ulteriore evidenza: le transazioni alberghierenella Penisola riguardano per oltre il 70% strutture del segmento luxury e upscale, mentre solo una porzione marginale si riferisce agli alberghi economy. Nel Regno Unito, storicamente il più grande mercato europeo del real estate, gli hotel del segmento più elevato rappresentano appena il 40% degli investimenti complessivi, mentre il segmento economy supera ormai il 10% del valore delle compravendite totali.

Eppur qualcosa si muove

È chiaro quindi che il contesto italiano apra notevoli spazi di opportunità. Anche perché, nel frattempo, il resto dell’Europa occidentale ha visto accentuarsi la pressione sugli yield: «In centro a Monaco di Baviera si arriva al massimo al 3,5% annuo», ha rivelato Michael Widmann di Pkf hotelexperts, «mentre ancora oggi a Milano si può spuntare il 4% – 5%». Bisogna però far presto, se non ci si vuole lasciar sfuggire l’ennesima occasione. E qualcosa, per la verità, pare si stia finalmente muovendo, se è vero che, come ha sottolineato il presidente di Confindustria Alberghi, Giorgio Palmucci, le due principali banche italiane, Intesa Sanpaolo e Unicredit, hanno da poco sviluppato dei prodotti ad hoc per il comparto alberghiero. Persino le istituzioni si stanno adeguando: il tax credit riqualificazioni, con il suo ulteriore plafond da 240 milioni fino a tutto il 2020, è un ottimo segnale, «ma servirebbero fondi maggiori e niente più click-day», che non è un metodo di selezione adeguato, ha fatto invece notare il direttore generale di Federalberghi, Alessandro Nucara.
Ecco allora che, forse non a caso, l’attenzione dall’estero per l’Italia sembra effettivamente crescere: «Il nostro fondo gestisce una massa di circa 20 miliardi di dollari», ha raccontato Federico Oliva di York Capital Management. «Nell’ultimo anno abbiamo investito 1,5 miliardi di euro in Italia, di cui circa 300 milioni nell’hôtellerie, acquistando asset e fornendo prodotti di debito». La logica, in questo caso, è quella opportunista tipica degli hedge fund, con prospettive d’investimento non più lunghe di cinque o sei anni. Così come piuttosto elevati sono pure i ritorni attesi: «Il nostro capitale richiede una remunerazione pari ad almeno 1,8 – 2 volte il valore investito», ha specificato sempre Oliva. L’approccio però è molto flessibile e non si concentra solo sulle grandi città della Penisola, tanto è vero che York Capital Management ha sia acquistato e venduto un resort in Toscana nel giro di un mese e mezzo, sia investito con tempistiche un po’ più lunghe in Sicilia e in Basilicata. Non solo: circa il 70% delle operazioni italiane ha riguardato i “famigerati” non-performing-loans (npl), che ancora appesantiscono molti istituti di credito nazionali.
Altro nuovo player internazionale è quindi Boissee Finances, che si occupa di sviluppo, gestione e investimenti alberghieri con un’ottica di medio-lungo periodo (almeno dieci anni). Tra i principali franchisor di AccorHotels, dotata di un portafoglio corrente di circa un’ottantina di hotel, prevalentemente localizzati in Francia, la compagnia è anche proprietaria dell’appena inaugurato Ac Hotel Venice by Marriott. «In Italia, per il momento, i nostri obiettivi rimangono le grandi città», ha rivelato a Tourism Investment il direttore generale Eric Rollin. «Ma non appena avremo consolidato la nostra presenza nella Penisola, proveremo a svilupparci anche nel segmento dei leisure resort, puntando soprattutto ad attivare sinergie con il nostro brand wellness thalazur, specializzato nella talassoterapia».

Dall’estero molte le novità in arrivo

Il turno dei brand alberghieri veri e propri si è quindi aperto con Hyatt, per ora attivo in Italia solo con il Park Hyatt Milano. Il gruppo americano ha però mostrato un piano di sviluppo piuttosto dettagliato, con progetti differenziati per le destinazioni principali (Milano, Roma e Venezia), dove ci sarebbe spazio per tutti i marchi del gruppo, e quelle secondarie (Firenze, Torino, Bologna, Verona, Napoli…), in cui invece la compagnia punterebbe maggiormente sulle proprie catene lifestyle e sull’affiliazione soft The Unbound Collection. «Ma il brand che crediamo possa avere le maggiori opportunità nella Penisola è sicuramente Hyatt Centric, grazie al proprio concept flessibile che ben si adatta ai progetti di riconversione», ha rivelato Nuno Galvao Pinto. Il regional vice president acquisitions and development del gruppo ha inoltre sottolineato come, per Hyatt, lo sviluppo passi esclusivamente dai contratti di franchising e di management, che però non sono certo i più popolari tra i proprietari alberghieri tricolore.
Non ancora presenti nella Penisola, ma interessati a entrare nel mercato italiano passando prima di tutto per Milano, sono poi i brand Ruby e The Standard. La compagnia tedesca specializzata nel lusso accessibile ha già bene in mente anche le location ideali, nel cuore delle zone più trendy della città meneghina, tra Brera, i Navigli e il quartiere Isola. L’obiettivo, ha raccontato la group director development, Isabell Hajdukiewicz, è quello di trovare immobili con superfici comprese tra i 2 mila e i 10 mila metri quadrati, da prendersi in affitto con contratti a lungo termine in vista soprattutto di progetti di riconversione: «Il nostro è un modello flessibile che, pur afferendo a un segmento elevato del mercato, tende a sfruttare al massimo ogni spazio disponibile. Risulta quindi particolarmente efficace in contesti come Milano, dove il costo per metro quadrato degli edifici è decisamente alto. A Monaco di Baviera riusciamo per esempio a garantire ritorni del 4% – 4,5% e pensiamo di poter assicurare gli stessi yield anche in Italia, dove ci piacerebbe espanderci pure a Firenze e Roma».
Milano, Milano e ancora Milano sono invece gli unici obiettivi italiani del momento per The Standard Hotels: «A oggi gestiamo cinque hotel negli Usa, ma stiamo per aprire anche a Londra», ha evidenziato Todd Reppert, head of development di Standard International, gruppo a cui fa capo l’omonimo brand di boutique hotel con un focus particolare su ristorazione e concept lifestyle. La compagnia punta decisa sulla città lombarda quale capitale della moda internazionale ed è alla ricerca di immobili da affittare a lungo termine, capaci di ospitare oltre 200 camere e spazi f&b da più di 1.500 mq.
Wombat’s è un brand austriaco di ostelli di ultima generazione, che ha da poco firmato un contratto di 20 anni di affitto, in vista dell’apertura di una nuova struttura a Venezia. «Ma la nostra idea è quella di arrivare anche in altre location, come Milano, Roma e Firenze», ha raccontato il business development manager del gruppo, Simon Hala. «Cerchiamo soprattutto location situate in zone ben collegate e inserite in contesti sociali interessantii. I nostri ospiti sono soprattutto turisti extra Ue, nonché britannici e tedeschi con tanta voglia di spazi contemporanei in cui poter socializzare con i locali e gli altri viaggiatori».
Dopo la comparsata al Met Bocconi, in occasione della presentazione del report Horwath Htl, il gruppo urban-luxury-lifestyle CitizenM è quindi tornato a Milano per ribadire la propria volontà di sviluppo in Italia. «Solitamente operiamo con strutture da almeno 350 camere. Siamo però consapevoli che questo nella Penisola non è sempre possibile. Non solo: se è vero che al momento l’85% degli hotel è di nostra diretta proprietà, siamo anche disponibili a sottoscrivere accordi di management con partecipazioni di minoranza. Abbiamo persino firmato dei contratti di affitto. Ma si tratta di casi eccezionali, relativi a progetti in fase di sviluppo, in mercati dove i ritorni sono particolarmente elevati e non potremmo essere altrimenti competitivi», ha svelato la director, development & investment – Europe, Maria Pia Intini, mostrando in questo modo tutto il realismo necessario a chi vuole entrare per la prima volta in un mercato complesso come quello tricolore.
Per ultima, è stata la volta di Meliá International che, dopo aver consolidato la propria presenza nelle aree urbane della Penisola (specialmente a Milano e Roma), ha confermato la propria svolta strategica verso i resort leisure, tanto da annunciare il lancio italiano del brand Sol by Meliá: «Tutti guardano alle grandi città, in cui certo non si può fare a meno di esserci. Noi però ora pensiamo di concentrarci sulle destinazioni balneari, soprattutto al Sud, dove siamo convinti si possano ottenere le marginalità più interessanti», ha concluso il managing director Italy, Palmiro Noschese.

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