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Lo stadio finale dello sviluppo

Di Job in Tourism, 5 Gennaio 2007

Pubblichiamo qui di seguito volentieri una lettera ricevuta poco prima delle festività natalizie da un docente di materie turistiche di terza area, che rappresenta il punto di vista dell’autore. Tuttavia essa contiene una serie di spunti che meriterebbero, a nostro avviso, un dibattito approfondito, non necessariamente racchiuso unicamente nell’ambito del turismo.

Molti anni fa lessi un libro della celebre psichiatra americana Elisabeth Kubler-Ross, di cui ora purtroppo non ricordo il titolo. Una frase però mi è restata impressa nel tempo: «Vorrei ritornare al mio dodicesimo compleanno perché ho dimenticato come sono le creature umane».
Siamo arrivati ad un punto, lo stadio finale dello sviluppo, in cui nessuno si cura più degli altri. E questo è ancor più vero nel difficile rapporto con i figli. Loro crescono così in fretta che ci sono sfuggiti di mano. Siamo così indaffarati che abbiamo perso la capacità di scoprire la gioia di guardarli negli occhi. Loro sublimano, perché non gli abbiamo insegnato cosa sia uno sguardo: hanno il ‘telefonino’ e lo scambiano per una compagnia e forse neppure si accorgono di vivere, come tutti noi, in un mondo di solitudine.
Parlo da docente di terza area delle scuole, per cui quelle indimenticabili emozioni, che derivano dai momenti di contatto con i propri alunni, sono ormai sempre più sciupate da quelle creature artificiose e tecnologiche che rispondono al nome di ‘telefonini’, prezioso scrigno di tutto lo scibile umano.
Rifletto da molto tempo su quanto sento dire a proposito dello stato culturale degli alunni delle scuole italiane. Personalmente sono impressionato dalla frequenza con cui ci si abbandona a facili dichiarazioni. Il vero dramma, secondo me, è la mortificazione continua della loro intelligenza: sono loro le vere vittime. Ed il carnefice è il ‘cellulare’, o meglio, tutto ciò che esso rappresenta.
Deluso da questo permissivismo dilagante, da questo mondo da ‘telefonino in classe’, mi rimane il rimpianto della serietà della scuola italiana di un tempo. Non azzardo terapie, ma sogno l’immagine di una scuola utopica: un luogo chiuso e isolato dal resto del mondo, un luogo dove non esistono telefonini, computer, play-station e tivù, un luogo dove far correre liberi i pensieri. Ma per raggiungerlo, bisognerebbe ripartire tutti da zero e, questo, è davvero un’utopia.

Francesco P. Durante

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