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Un salto verso dimensioni industriali

Il percorso di Hnh Hotels and Resorts: da azienda familiare a compagnia alberghiera moderna e strutturata, adeguata ad affrontare le sfide del Terzo millennio

Il percorso di Hnh Hotels and Resorts: da azienda familiare a compagnia alberghiera moderna e strutturata, ad

Di Massimiliano Sarti, 8 Febbraio 2018

Da classica azienda di famiglia con due alberghi di proprietà a Jesolo e a Mestre, a gruppo strutturato, dotato di capitale internazionale e con un’organizzazione pensata per vincere le sfide del mercato globale. Quella di Hnh Hotels and Resorts non è una storia originale in senso assoluto. Un’evoluzione simile la vivono tutte le imprese in espansione di qualsivoglia settore: soprattutto quando decidono di passare da una dimensione artigianale a un’organizzazione dal taglio più industriale, per meglio far fronte ai contesti inediti legati sia all’evoluzione della domanda, sia alle esigenze di sviluppo della compagnia stessa. Il fatto è che, nel mondo dell’ospitalità italiana, questo scatto decisivo in una prospettiva di crescita ed economia di scala non è affatto scontato. Anzi, troppe volte le imprese alberghiere tricolore si accontentano di rimanere nel limbo di un’offerta a metà strada tra quella genuina ma anche un po’ naif degli anni 1960-1970, e quella di un prodotto moderno, flessibile e digitalizzato del Terzo millennio.
La nostra storia inizia proprio nel periodo del boom economico, ormai più di 50 anni fa: all’epoca Angelo e Jolanda Boccato acquistano infatti il Brasilia di Jesolo, che più tardi diventerà Park Hotel Brasilia, e successivamente il Tritone di Mestre. Hnh nasce invece nel 1999, per supportare le ambizioni di crescita di un gruppo che è oggi guidato dalla terza generazione della dinastia. «Nei primi anni, fino al 2005-2006, abbiamo puntato soprattutto sull’acquisizione di nuovi immobili», racconta il nipote di Angelo e Jolanda, Luca Boccato, dal 2003 alla guida del gruppo come amministratore delegato, insieme ai genitori Loris e Marina, nonché alla sorella Cristiana. «Una strategia, quella di allora, figlia tra l’altro di una condizione particolarmente favorevole del credito. Ciononostante noi siamo sempre rimasti fedeli a un approccio cauto e sostenibile, che ci ha permesso di passare da due a quattro strutture totali senza subire eccessivamente le ripercussioni della successiva crisi economica. In seguito ci siamo quindi spostati su logiche più asset-light, optando per un’espansione basata prevalentemente sulla firma di contratti di affitto e capace di farci superare in breve tempo la soglia delle mille camere totali».
L’ultimo step si è quindi concretizzato circa un anno fa, quando il gestore di private equity transalpino, Siparex, specializzato nel sostegno finanziario a imprese del mid market, ha deciso di investire nella società con sede a Mestre. L’operazione è stata portata a termine a seguito di un aumento di capitale di oltre 8 milioni di euro, pensato per garantire ad Hnh la liquidità necessaria a favorire una sua ulteriore espansione. Nel frattempo, la compagnia è diventata una società di gestione pura, con la parte real estate, relativa ai quattro alberghi di proprietà, tutti situati tra Venezia-Mestre e Jesolo, fatta confluire nella holding di famiglia. Oggi il gruppo Hnh Hotels and Resorts è quindi partecipato al 64% dalla famiglia Boccato, al 35% da Siparex e allo 0,69% da Gianfranco Burei, che all’epoca dell’aumento di capitale aveva svolto il ruolo di advisor.

Domanda. Come avete affrontato un passaggio tanto delicato?
Risposta. Effettivamente non è stata un’operazione nata dall’oggi al domani. Ci abbiamo lavorato per ben 18 mesi: un anno e mezzo durante il quale abbiamo dovuto adeguare la nostra struttura organizzativa e di governance, secondo logiche di trasparenza coerenti con il nuovo contesto. Per fare solo un esempio, prima il cda era sostanzialmente una riunione di famiglia dal carattere informale, oggi invece la sua convocazione segue tutta una seria di procedure e criteri legali ben precisi e predeterminati.

D. Che effetto vi ha fatto perdere il carattere quasi intimo della modalità di gestione precedente?
R. Non nego che nelle situazioni simili alla nostra non è infrequente incontrare resistenze da parte di chi è meno disposto ad accettare regole di conduzione più rigide e formali. Anche noi ci siamo quindi confrontati con sincerità, ma fortunatamente devo dire che il passaggio è stato pressoché indolore.

D. Quali sono ora i vostri piani di espansione futura?
R. Al momento abbiamo già in essere un paio di contratti per l’apertura di due DoubleTree by Hilton a Trieste e a Roma, la cui inaugurazione è prevista per il 2019. A Venezia, invece, il Best Western Premier Hotel Sant’Elena sarà presto trasformato in un Indigo (Ihg). A tal fine, abbiamo stanziato un investimento Capex di circa 1,5 – 2 milioni di euro, parzialmente finanziato da “key money” direttamente garantito da InterContinental. E questo in una logica multi-brand, che ci spinge continuamente a trattare con tutte le maggiori catene internazionali oggi attive sul mercato. Oltre a Bw, Hilton e Ihg, stiamo infatti concretamente parlando anche con Marriott, mentre Hyatt ci ha recentemente contattato perché vorrebbe discutere con noi di eventuali progetti futuri.

D. Voi però non agite solo come white label company. Su quali basi decidete se affiliare o meno a marchi terzi le vostre strutture?
R. In città preferiamo solitamente operare con un brand di riferimento, mentre nelle località balneari tendiamo a rimanere indipendenti. È una questione di ottimizzazione dei budget. L’affiliazione a una catena costa in media tra il 5% e il 10% del fatturato camere complessivo. Ma la presenza di un marchio è generalmente molto più importante per un cliente business, piuttosto che per l’ospite leisure. Il turista in vacanza tende infatti a basare le proprie scelte di soggiorno su logiche diverse, in special modo sulla reputazione online delle strutture.

D. Come scegliete invece di volta in volta i marchi con cui collaborare?
R. In primis, cerchiamo di capire quale sia il brand più coerente con il posizionamento del singolo prodotto, che a volte può avere persino dei vincoli strutturali capaci da soli di imporre una determinata direzione. Per intenderci, se le camere di un hotel sono grandi appena 15 metri quadrati, difficilmente si potrà pensare di dialogare con un marchio upscale. Ma nelle nostre valutazioni prendiamo pure in considerazione la diffusione della catena nella destinazione di riferimento. A Trieste, per esempio, la partnership con DoubleTree è nata soprattutto dalla convinzione che portare il marchio Hilton per la prima volta nella città giuliana possa contribuire a dare una grande visibilità alla struttura. Infine, bisogna naturalmente studiare con attenzione la sostenibilità generale dell’operazione: ci sono catene più demanding, che impongono standard più rigidi e costosi, spesso più adatti a contesti nuovi, e altre al contrario più flessibili, che meglio si accompagnano al rebranding di strutture già operative.

D. Quali i vantaggi concreti di una scelta white label?
R. Oltre alla garanzia di standard ottimali per la clientela e alle efficaci strategie distributive dei grandi gruppi, c’è da aggiungere il valore dei programmi fedeltà: uno strumento estremamente importante per non dipendere troppo dalle agenzie online. Questo naturalmente non vuol dire che gli hotel possano fare a meno delle Ota, ma che occorre trovare il giusto mix distributivo. Come dice il ceo di Hilton, Christopher Nassetta, il rapporto con le agenzie online non deve mirare né a massimizzarne l’impatto, né a minimizzarlo, ma semplicemente a ottimizzarlo.

D. E dove si trova l’equilibrio ideale?
R. Nassetta una volta ha citato a questo riguardo la formula del dieci-dieci-dieci. Ossia le Ota, a suo parere, dovrebbero costare il 10% della tariffa camere e pesare per il 10% del fatturato totale, mentre il portafoglio di una compagnia dovrebbe essere distribuito su dieci piattaforme online differenti. Noi di Hnh non abbiamo obiettivi tanto ambiziosi ma, per quanto riguarda l’incidenza delle Ota sul nostro giro d’affari complessivo, siamo già sotto al 20%. L’idea è quella di arrivare attorno al 15%, per abbattere i costi ma mantenere al contempo un certo effetto billboard (dal nome che la Cornell university ha dato al potenziale di visibilità garantito dalla presenza di un hotel sui canali web, ndr). La nostra clientela diretta arriva invece al 35% – 40%, ma anche in questo caso vorremmo puntare più in alto, fino a raggiungere un livello situato attorno al 50%.

D. E quali le strategie adottate a tal fine?
R. Dal 2006 abbiamo iniziato un processo di centralizzazione del nostro modello organizzativo. Nella sede di Mestre contiamo infatti su un ufficio di 40 persone, che si occupano tra le altre cose di web marketing, amministrazione, brand reputation ed energy management. Ben quindici di loro lavorano inoltre in ambito sales e revenue, dettando la direzione per tutti gli hotel del gruppo, in modo da massimizzare i ricavi e al contempo ottimizzare i costi di acquisizione dei clienti: una variabile, quest’ultima, da cui oggi non si può più assolutamente prescindere.

D. Passando ora al lato proprietà degli immobili: come scegliete gli investitori e i proprietari con cui collaborare?
R. Prima di tutto c’è l’holding di famiglia, che naturalmente rappresenta il nostro partner ideale. Collaboriamo poi con un discreto panel di investitori istituzionali, tra cui assicurazioni come Allianz, Reale Mutua e Generali, nonché asset management company quali Castello sgr. Ma abbiamo relazioni anche con alcune famiglie private. Con tutti abbiamo instaurato rapporti di reciproca soddisfazione, sebbene nell’ultimo caso può a volte sorgere qualche piccola difficoltà di dialogo, in quanto si tratta di interlocutori per definizione meno strutturati degli istituzionali in tema di gestione degli asset.

D. Quali tipologie di accordi vi legano agli hotel del vostro portafoglio?
R. La stragrande maggioranza delle volte parliamo di contratti di affitto di lungo periodo (d’immobile o d’azienda), a cui in alcuni casi accompagniamo degli accordi di franchising con una qualche catena internazionale. Ci sono situazioni, però, in cui abbiamo firmato pure dei contratti di management, ma al momento rappresentano una quota marginale della nostra attività.

D. Come ci si muove in una posizione intermedia come la vostra, a metà strada tra la proprietà degli hotel e i grandi gruppi dell’hôtellerie internazionale?
R. Si prova a lavorare in entrambe le direzioni. Da una parte occorre in particolare far capire agli operatori stranieri che determinati standard in Italia sono semplicemente inapplicabili. Prenda per esempio le nuove tecnologie dedicate al self check-in e all’accesso diretto in camera tramite smartphone: da noi esistono precise norme di legge che impediscono la loro implementazione, imponendo il riconoscimento e la registrazione dei dati dell’ospite al momento del suo arrivo. Con le proprietà bisogna invece ragionare sulle motivazioni alla base delle migliorie da apportare alle strutture: interventi utili a garantire al gestore il pagamento delle locazioni e quindi, in ultima analisi, alla sostenibilità del business. Senza contare che quasi sempre i nostri contratti di affitto contengono una parte di fee variabile indicizzata sulle performance, per cui qualsiasi azione volta a migliorare la qualità dell’offerta non può che riverberarsi positivamente non solo sul valore intrinseco dell’immobile, ma anche sui flussi di cassa attesi da parte delle stesse proprietà.

D. A proposito: quale ritorno medio sull’investimento offrite ai vostri partner?
R. In realtà normalmente parliamo di quota del fatturato, perché crediamo che un hotel prima ancora di essere un immobile sia un’azienda, il cui valore dipende proprio dall’andamento del business sotteso. Partiamo quindi da quella che è la media diffusa nel settore, pari a circa il 20% del fatturato complessivo, per poi aggiustare la percentuale a seconda dei singoli contesti. Se proprio dobbiamo invece ragionare in termini di roi, diciamo che, per gli hotel in posizione centrale nelle grandi città, rimaniamo al di sotto della soglia del 5%, mentre per le strutture situate in destinazioni secondarie oppure in quartieri periferici, si può arrivare anche al 6% – 7%. L’importante però è ragionare sempre su contratti sufficientemente lunghi, sostenibili ed equilibrati.

Numeri e profilo del gruppo

La compagnia ha chiuso il 2017 con risultati in crescita per l’ottavo anno consecutivo. Il fatturato di Hnh Hotels and Resorts è infatti aumentato del 14,5% rispetto al 2016, arrivando a quota 40,8 milioni di euro, di cui 33,7 milioni (+13%) frutto della gestione diretta degli hotel con contratti di locazione, e la restante parte generata dalle strutture in management. Tali risultati sono stati garantiti dall’ottimo andamento di tutti gli indici tradizionali di misurazione delle performance alberghiere: le tariffe medie sono infatti cresciute del 6.9% (da 118,7 euro a 126,9 euro), mentre il tasso di occupazione è salito dell’8% fino al 73,3%. «Per il 2018», racconta sempre Luca Boccato, «prima delle nuove aperture già in cantiere per l’anno successivo, prevediamo un ulteriore consolidamento delle performance con una crescita del fatturato, a parità di perimetro, del 2,1%. Tuttavia, non escludiamo di allargare il nostro portafoglio di hotel con nuove acquisizioni operative già nel corso dell’anno».
Al momento Hnh gestisce direttamente (in proprietà e/o in affitto) una decina di hotel tra Veneto, Friuli ed Emilia Romagna (di cui cinque affiliati Best Western), a cui si aggiungono due strutture in management: l’Hilton Garden Inn Milano Malpensa e l’InterContinental di Venezia. Per il 2019 è in programma una doppia apertura, a Trieste e a Roma, griffata DoubleTree by Hilton, e il rebranding del veneziano Sant’Elena in Hotel Indigo (Ihg).

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