“Un libro sul turismo non se lo leggerebbe nessuno”, ci diceva un anno e mezzo fa, senza troppi giri di parole, un editor di un’importante casa editrice. E, invece, si sbagliava. Negli ultimi mesi sugli scaffali delle librerie i saggi che parlano a vario titolo di turismo si sono moltiplicati, come mai prima. Pubblicazioni presentate in fiere, eventi culturali, kermesse, che riempiono sale in maniera inaspettata anche per gli stessi organizzatori. Insomma, il 2025 è stato l’anno nel quale il turismo è uscito dai discorsi tra addetti ai lavori ed è entrato a pieno titolo nel dibattito cosiddetto mainstream. Si è visto con chiarezza la scorsa estate – e lo abbiamo raccontato anche sulle pagine di questo magazine – quando è esploso il dibattito sulle presunte “spiagge vuote”: le analisi sullo stato di salute del turismo italiano hanno riempito colonne di quotidiani e magazine culturali, salotti tv, podcast di grido, persino i reel di Instagram.
Tutto e il contrario di tutto
Tutti parlano di turismo, dunque. E possiamo considerarla una buona notizia: quando le questioni assumono rilevanza nel dibatto pubblico aumentano le possibilità che istituzioni e politica se ne facciano carico e provino a dare risposte. Eppure, l’impressione è che il faro acceso sul turismo nell’ultimo periodo abbia prodotto un dibattito utile più a legittimare opinioni di parte che ad affrontare i problemi, nel quale viene detto tutto e il contrario di tutto.
Ecco, allora, trovare spazio affiancate le une alle altre considerazioni nette e diametralmente contrapposte come “è stata una stagione da record” e “non si sono mai visti lidi così vuoti”. “Il turismo sta distruggendo i territori e le città” e “di turismo non ne abbiamo tanto, ma piuttosto troppo poco”. O, ancora, “il turismo è il settore che traina l’occupazione in Italia” e “non c’è più nessuno che voglia lavorare nel turismo”. Il tutto condito dalle “parole magiche” immancabili, additate come la panacea a ogni male del settore: “destagionalizzazione” e “turismo dei borghi”.
Una visione complessa
Ma dove sta la verità? Probabilmente, come il buon senso suggerisce, sta nel mezzo, in una visione che non semplifica e polarizza, ma prova a tenere insieme la complessità, cifra di questi tempi tutt’altro che semplici da interpretare. Una prospettiva, per esempio, che a proposito di overtourism prenda posizione sugli effetti dirompenti che il turismo ha su alcune destinazioni, senza tuttavia pensare che un’intera economia possa essere sostituita da un giorno all’altro senza una transizione di cui le istituzioni si facciano carico. Che prenda atto che una vera destagionalizzazione dei flussi turistici non sarà mai possibile fino a quando i tempi del lavoro e della scuola saranno tali da imporre alla maggior parte delle persone di fare le vacanze nello stesso periodo. Che in maniera onesta riconosca che sarà molto difficile dirottare gruppi di turisti australiani o cinesi in Italia per visitare Firenze verso i pur splendidi e meno noti borghi del vicino Casentino.
Il nodo lavoro
Il punto sul quale, dalle pagine di questo giornale, ci sembra giusto esprimere un punto di vista è soprattutto quello del lavoro. Da tempo raccontiamo come negli ultimi anni sia cambiato e come il mercato stia cercando di adattarsi a sensibilità e istanze nuove espresse dalle persone, soprattutto dai più giovani. “Per molto tempo ho pensato che stessero sbagliando loro, ora ho capito che siamo noi a doverci adattare”, ci ha detto con grande lucidità qualche tempo fa una HR alberghiera di grande esperienza. Come lei, sono molti i recruiters, ma anche i capireparto e i direttori, fin su ai CEO e agli amministratori delegati, che hanno capito che l’unico modo per far sì che lavorare nel turismo torni a essere allettante è evolvere, adattarsi allo spirito del tempo, anche esercitando una certa creatività in fatto di organizzazione, welfare, formazione.
L’altro pezzo spetta ora alla politica, chiamata a dare risposte su ciò che le compete e ulteriore spinta alle pur utili iniziative varate quest’anno, come i fondi stanziati per le staff house a sostegno degli interventi per gli alloggi dei lavoratori del comparto. E, dunque, la riforma della formazione di settore per prima cosa, perché il mismatch nel turismo italiano è soprattutto un disallineamento di competenze. Ma anche il taglio del costo del lavoro, perché organizzazioni più flessibili che rispondano al desiderio di work-life balance delle persone richiedono di poter assumere più personale senza mettere in crisi i bilanci delle aziende. E il fare i conti con l’elefante nella stanza del turismo, che continuiamo a far finta di non vedere: il lavoro nero, quello sottopagato e quello precario, veri freni alla ripresa occupazionale del settore.
Chissà che il 2026 non sia l’anno in cui alle parole seguiranno i fatti.
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