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Scusi, mi fa una foto?

Di Job in Tourism, 9 Marzo 2017

Quante volte ci è capitato di pronunciare questa frase: in una gita, o davanti a un monumento, durante un concerto, a una festa; per immortalare un momento, fissare un’emozione o nel tentativo di eternare un incontro.
Dall’origine della sua invenzione, in maniera crescente, la foto è diventata protagonista della nostra vita: irrinunciabile, insostituibile, che nei momenti top prende spazio, tempo, energie e che… diciamolo: si è veramente allargata! Ho visto gente fotografare funerali, incidenti stradali, effetti del terremoto, case in cui sono avvenuti delitti tristemente noti. Fino ad arrivare ai giorni nostri e al delirio di questi anni: il selfie.
La domanda indicata nel titolo ha smesso di avere ragione: armati di agili bastoni appositamente brevettati per la nuova febbre degli anni in corso, ognuno si organizza per se stesso, senza limiti né censure e spesso senza senso. Le donne dagli 8 agli 88 anni sono tutte con la bocca a cuore, truccatissime, bellissime, giovanissime, e desolatamente tutte uguali; gli uomini, di età non meglio definita, si auto-immortalano con cappellini, occhialoni, orecchini, tatuaggi, bicipiti in bella mostra, e chi più ne ha…
Ma tant’è: una foto lascia una traccia, una memoria; ricorda a noi e agli altri chi siamo, come siamo, come eravamo e dove eravamo; e con chi, e a fare cosa, e perché. Con una foto inviata o postata, una serie di info riassunte e non dette viaggiano dietro il clic di un sorriso o di un viso. Per non parlare delle implicazioni emotive che una foto suscita, smuove, agita. Ma mi fermo, non vorrò mica fare l’esegesi della foto o l’ermeneutica del selfie! Vengo al dunque, e rientro nei ranghi della mia materia. La domanda che mi pongo è: quale sarà il motivo per cui tanti probabili candidati che mi scrivono non allegano uno straccio di foto al cv?
Ecco, era qui che volevo arrivare. Nei tempi della “foto globale”, che tutto ammanta e che dovunque si estende, un atto così ovvio viene omesso nell’elaborazione di un cv da inviare a un head hunter. Il punto è, pare, che l’ovvio non è ovvio. Mi vedo costretta a sollecitarne l’invio, a chiederla espressamente, a inviare una mail di stimolo, a incitare gli indecisi o i ritardatari… Finalmente ne entro in possesso. E nemmeno sempre. Peccato.
Ma il peggio non è mai morto. Altrettante volte la foto arriva. E qui si spalanca un ventaglio di opzioni fotografiche che non sfigurano davanti al più estroso dei creativi. Che dire delle foto formato tessera fotocopiate da una carta di identità neppure recentissima? O di quelle che appartengono alla categoria “wanted”? O di quelle in cui non c’è nessuna cura del dettaglio. Tipo: maglia a girocollo, espressione mortifera, trucco pesante, chiome leonine che coprono tre quarti del viso. Per non parlare di quelle a figura intera e che lasciano più di una perplessità: stacco di gamba al di sotto di un orlo di gonna inopportunamente troppo corto, foto al mare in una partita di beach volley, immagine piccola e non a fuoco in campo grande, e via dicendo.
La verità, come nella maggior parte delle situazioni in cui è sufficiente un sano buon senso, sta sempre nel mezzo. Allegare una foto a colori, di buona qualità, con un viso sorridente e con una camicia fresca di bucato è quanto di più semplice possa essere fatto. È più facile azzeccarla che fare flop. E nell’epoca dei selfie, ciò è davvero paradossale.

* Mary Rinaldi è partner di Resume Hospitality Executive Search, divisione indipendente Job in Tourism dedicata all’head hunting, alla consulenza e alla formazione in tema di risorse umane nel settore hospitality.

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