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Workaholism, ovvero: la dipendenza dal lavoro

Come riconoscerla? E come capire il limite fra dedizione, abnegazione, spirito di sacrificio e patologia? Il contributo dell’esperta

Come riconoscerla? E come capire il limite fra dedizione, abnegazione, spirito di sacrificio e patologia? Il

Di Mary Rinaldi, 15 Maggio 2019

Sono tempi, questi, in cui il lavoro è caratterizzato da un elemento forte e distintivo: l’assenza. Nel senso che (parlo per l’Italia): non ce n’è! Chi non ce l’ha non lo trova, chi ce l’ha lo perde, chi lo perde non è detto che lo ritrovi. I dati sull’occupazione sono allarmanti, soprattutto quelli relativi ai giovani e alle donne. Nessuno è in grado di dire cosa accadrà nei prossimi anni.
In scenari di contrazione e di recessione come i nostri, che senso ha parlare di workaholism? Intendiamoci prima sul significato delle parole che adoperiamo: il workaholic è una persona affetta da un disturbo compulsivo che si manifesta con comportamenti di esagerato ed esclusivo interesse nei confronti della propria attività lavorativa, la quale diventa il tema dominante, anzi l’unico di una intera esistenza, con inevitabili ricadute sulla vita familiare e sociale.
È una patologia figlia di tempi recenti, coloro che la stanno studiando la legano alla crescita della competizione, delle elevate aspettative, dell’ambizione.
Ora, chiunque è in grado di riflettere sulle conseguenze dei cambiamenti verificatisi nel lavoro; pochi secoli fa il lavoro era appannaggio degli schiavi e dei servi, e solo in un tempo relativamente recente ha assunto significato di valore, inteso non solo come attività dignitosa e dimensione utile alla propria sopravvivenza e alla indipendenza economica per produrre beni e servizi per sé e per la comunità, ma come mezzo per realizzare la propria affermazione sociale e personale.
Ulteriore passaggio nel tempo è stato il tentativo dell’uomo di affrancarsi dalle fatiche fisiche e dalla condanna biblica di “guadagnarsi il pane col sudore della fronte”; chi poteva immaginare che il lavoro, anzi il super-lavoro, avrebbe finito per costituire una patologia ed entrare addirittura nei manuali dei disordini comportamentali e delle dipendenze?
Perché oggi il workaholism così viene trattato, alla stregua di una vera e propria dipendenza.

Identikit di un workaholic
La dipendenza si verifica quando un aspetto della nostra vita lentamente ma in maniera inesorabile si “espande” fino ad allagare e a invadere tutte le componenti della vita dell’uomo, lasciando poco o nessuno spazio a tutto il resto, relazioni, vita sociale, interessi.
Definire i tratti indicativi del workaholic non è difficile, se non altro perché ognuno di noi può probabilmente pescare nella propria esperienza e fare riferimento a persone conosciute direttamente:
– c’è la persona competitiva e orientata al potere, poco importa se in gara con se stesso o con altri. “In amore e in guerra tutto è permesso”, e a questo punto anche nel lavoro: pur di affermare sé stessi e di raggiungere obiettivi di solito auto-assegnati, di potere e di successo, si arriva a compiere qualsiasi atto, talvolta anche immorale, di prevaricazione, di predominio e di sfruttamento;
– c’è colui (o colei; purtroppo tale disturbo ultimamente si va diffondendo anche fra le donne, fino a pochi decenni fa “salve” da certe logiche tipicamente maschili) che è animato dal perfezionismo e dalla tendenza all’eccellenza. Spinge, spinge sull’acceleratore, e le ore di lavoro crescono, lievitano fino a prendersi tutto;
– c’è la persona in cui il super-lavoro diventa una maniera e una valida e nobile scusa che permette, in modo subliminale e inconsapevole, di evitare il resto del mondo e della vita, per coprire insuccessi sociali, affettivi, sentimentali.

Si tratta di persone che spesso non hanno altri interessi (loro dicono di non avere tempo), che si annoiano in vacanza non vedendo l’ora di rientrare al lavoro, che sviluppano vere e proprie crisi di astinenza, che guardano continuamente il telefonino o la posta elettronica, che il sabato mattina non perdono la speranza di verificare l’eventuale arrivo di ordini; addirittura mostrano disprezzo e aperta disapprovazione per coloro che si divertono, che vanno in vacanza o escono con gli amici, accusandoli più o meno apertamente di essere dei perdigiorno e degli scansafatiche. Nelle fasi più avanzate si osserva depressione o esaltazione, abuso di farmaci (e non solo!), problemi di salute (ipertensione, insonnia, ansia, inappetenza), isolamento sociale.

La deriva
C’è da dire che è una situazione che riguarda raramente i lavoratori dipendenti, ma è appannaggio in prevalenza di imprenditori, artigiani, professionisti, manager, e trasversale ad ogni settore produttivo, compreso quello alberghiero. La particolarità è dovuta al fatto che il workaholic non ha la percezione di uno stato di malessere; se glielo fai notare risulti irritante e rompiscatole. Si sentono incompresi e non adeguatamente valorizzati, in fondo lavorano! Non capiscono come possa risultare impropria quella che per loro è dedizione, abnegazione, spirito di sacrificio. La conseguenza è che gli effetti più evidenti si abbattono sulle persone che vivono accanto a loro: i divorzi sono frequenti così come fallimentari i rapporti con i figli.

Perché si diventa workaholic?
Il lavoro quindi come fonte di adrenalina. Attenzione: non “accanto” all’interesse per la musica o alla passione per i viaggi, e nemmeno rispetto alla nascita di un figlio o a una qualsiasi fondante esperienza, ma come “unica” fonte di produzione adrenalinica. Si tratta di un processo che si avvia gradualmente, nessuno nasce workaholic. Potremmo analizzare i motivi per cui talune persone e non altre vanno incontro a questo quadro di instabilità psichica, potremmo ipotizzare figure genitoriali fortemente richiedenti in termini di prestazione, potremmo parlare di impellente desiderio di rivalsa sociale, o tendenza ad affrancarsi da una situazione sociale di livello medio-basso, e fare altre ipotesi di tipo psicologico o anche psicodinamico.
Il punto è che si tratta di un quadro clinico che produce modifiche soprattutto caratteriali: se si parla di lavoro sono dei leoni, aggressivi, invincibili, sicuri di sé. Anche in situazioni inevitabili di relax, durante il week-end o un momento familiare o privato, sono ben contenti se trovano qualcuno disposto ad ascoltare i loro progetti, le loro storie lavorative, aneddoti. C’era un commercialista che frequentavo per ragioni di famiglia: se volevo farlo felice, durante l’aperitivo domenicale era sufficiente che gli chiedessi qualcosa sugli sgravi fiscali o sui rimborsi Iva: il suo sguardo si illuminava, la sua postura cambiava, e iniziava a discorrere sempre più animatamente, con evidente passione, quando non con tono concitato e incalzante.
Fuori dal lavoro, o senza parlare di lavoro, queste persone sono gatti sonnacchiosi, non hanno argomenti di conversazione, e non mostrano nessun tipo di interesse per qualsiasi discorso o resoconto di contenuto leggero e di svago.
A mio parere l’aspetto più desolante di questo quadro abbastanza inquietante è il fatto che queste persone perdono completamente di vista il fine ultimo del lavoro stesso: è come pedalare senza sapere dove si sta andando e perché. Quando si travalica il limite tra la passione per la propria attività, lo spirito di sacrificio e la vera e propria dipendenza dal lavoro, si è dentro alla patologia con tutte le scarpe. Conosco persone che guadagnano cifre spropositate, quasi invereconde, eppure la mattina, tutte le mattine, entrano in un ritmo sempre più incalzante e inumano, e soprattutto senza poter scegliere perché prede di sé stessi: scegliere di prendere una giornata di riposo, scegliere di uscire la sera e domattina puntare la sveglia un’ora dopo, scegliere di andare a casa prima e passare qualche ora con i bambini.

Il racconto
Un manager una volta, in un momento di lucidità (che mi auguro non sia rimasto isolato, peccato non poterlo verificare, avendolo perso di vista) mi diceva: “Guadagno bene, mia moglie ha una farmacia di proprietà in centro città con sette dipendenti che se la vendesse saremmo milionari, abbiamo la casa in montagna, la casa al mare e la casa al lago, eppure quando arriva il sabato tutto quello che riusciamo a fare è chiuderci in casa a dormire aspettando il lunedì mattina: faccio la vita dell’ultimo metalmeccanico da 1300 euro al mese”. Faceva da sempre due settimane di vacanze al mare, naturalmente in agosto, e la settimana di Natale in montagna. Mentre parlava con me aveva avuto uno sguardo desolato, poi era arrivata la segretaria a chiamarlo per un appuntamento e si era subito ringalluzzito e corso di là ad incontrare il cliente. Credete forse si trattasse di un 40enne con ancora tanto futuro davanti? No. Aveva 62 anni.

Stabilire i limiti
Qual è il limite fra workaholism e dedizione, abnegazione, spirito di sacrificio? Tra “uso adeguato” del lavoro e dipendenza? La presenza di periodi nella vita in cui è necessario riservare maggiore spazio all’attività lavorativa non deve far pensare ad una dipendenza dal lavoro, così come il semplice piacere nell’esercizio della propria professione o l’ambizione al successo non sono da considerare sintomi di questa problematica. Ciò che consente di parlare di dipendenza è l’esclusività del lavoro, oltre che nella vita reale, soprattutto in quella mentale di una persona.
La mancanza di consapevolezza non aiuta di certo ad intraprendere la strada del rientro in carreggiata, e colui che tenta in tutti i modi di far passare per normale un comportamento decisamente patologico ha difficoltà doppie o triple rispetto a chi invece si pone su un piano di auto-critica e chiede aiuto. Ci si deve soltanto augurare che chi non percepisce il danno su di sé, possa almeno limitare i danni nella vita altrui. O quanto meno non stupirsi delle fughe messe in atto da chi decide di andare incontro alla salvezza!

*Mary Rinaldi è partner di Resume Hospitality Executive Search, divisione indipendente di Job in Tourism dedicata all’head hunting, alla consulenza e alla formazione in tema di risorse umane nel settore hospitality

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