«Quando dissi a mia madre che lasciavo Fiat per andare a occuparmi di alberghi, lei non mi parve molto contenta». Cordiale, sincero, senza timore di dire ciò che pensa veramente. Si presenta in questo modo l’amministratore delegato Accor Italia, Renzo Iorio. Mi dà il benvenuto negli uffici milanesi del gruppo alberghiero francese, dove si respira l’aria di una grande multinazionale con oltre 3.500 strutture sparse in 92 paesi differenti. Lo stesso Iorio, peraltro, proviene da esperienze in imprese di portata globale: una breve permanenza al Sole 24 Ore, poi un periodo in Accenture, per entrare quindi in Fiat e assumere, con gli anni, la direzione partecipazioni di Ifil, già società d’investimento controllata dalla famiglia Agnelli.
Una sorta di mosca bianca, dunque, in un mondo troppo spesso chiuso in se stesso, dove le figure apicali delle organizzazioni vengono quasi sempre cooptate dall’interno e dove, una volta entrati, è difficile uscire per provare nuove strade. «Persino quando ci si occupa di settori trasversali come il marketing e la finanza», chiosa, tra l’altro, proprio l’a.d. di Accor Italia. Eppure, la sua è una eterogenesi che non gli ha impedito di diventare un protagonista riconosciuto dell’ospitalità italiana, tanto da essere nominato ai vertici delle principali organizzazioni di categoria: già presidente di Confindustria Aica, l’organizzazione che raccoglieva le catene alberghiere della penisola, oggi confluita nell’Associazione italiana Confindustria alberghi, è attualmente presidente di Federturismo. Rappresenta perciò sicuramente un punto di vista privilegiato per analizzare il futuro del settore, nonché i limiti e le potenzialità dell’industria dell’ospitalità: da insider, vista l’ormai quasi ventennale esperienza in Accor, e da outsider, considerati i trascorsi precedenti.
Domanda. Direi di partire proprio dalle differenze tra l’hôtellerie e gli altri settori…
Risposta. Come accennavo, quello che mi ha colpito immediatamente, quando sono approdato nell’ospitalità, è stata la grande impermeabilità del comparto: una caratteristica che rischia ancora adesso di condurre l’hôtellerie verso un eccesso di autoreferenzialità. Sono rimasto inoltre sorpreso dalla rigida organizzazione gerarchica degli hotel, con la loro impostazione quasi militare dello staff. Un modello, per la verità, diffuso soprattutto una ventina di anni fa e che oggi è un po’ in declino. Anche perché certi livelli di stratificazione, con l’attuale attenzione ai costi, ormai se li possono permettere in pochi. A quei tempi, però, c’erano anche i grandi guru dell’hôtellerie: sorta di personaggi mitici in grado di pontificare un po’ su tutto, ma che non sempre riuscivano ad accompagnare le parole con i risultati concreti. Tutte cose che, con il buon senso, con tanta pazienza e nell’ambito delle mie possibilità, ho cercato di correggere fin dall’inizio.
D. Cosa le piace, invece, dell’hôtellerie?
R. Ho apprezzato da subito il fatto che fosse un settore dove si rimane aperti 365 giorni all’anno: un segno di vitalità, tipico di un comparto dove non ci si ferma mai e in cui il processo produttivo assume una vitalità propria. Romanticismo industriale? Forse, ma è quello che penso davvero. E poi mi è sempre piaciuto il peso che ha la componente umana: la vera risorsa fondamentale di questo settore. Tanto più che il prodotto finale, nell’hôtellerie, è fortemente condizionato dal contatto diretto con le persone. La percezione della qualità dell’offerta, perciò, non è tanto determinata dai quadri alti, ma dal personale operativo. Tutti aspetti che mi affascinano, ancorché questa professione, in Italia, non rappresenti ancora un traguardo di riconosciuto prestigio. Lo dimostra la reazione di mia madre nel momento in cui le comunicai la mia intenzione di lasciare la Fiat, per entrare in Accor: in una famiglia di origini torinesi come la mia, quasi un sacrilegio. Tuttavia è questa una professione che io mi sentirei di consigliare. Anche se magari, come in tutti i lavori, non per tutta la vita.
D. Parliamo ora di quello che sarà: quale pensa sia il prossimo futuro dell’hôtellerie?
R. Credo che si vada verso orizzonti positivi. Quella turistica è una delle poche domande che continua a salire. A monte di tale trend, una serie di fattori, tra cui la crescita della ricchezza universale, la diffusione dell’emancipazione culturale e le accresciute possibilità di accesso ai viaggi. Tutti elementi che, da 50 anni a questa parte, fanno sì che la gente si muova sempre di più. Ovviamente sto parlando a livello globale. Nel particolare, esistono filoni differenti, che si muovono con diversi gradi di maturità e di velocità relativa.
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