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Un futuro con più ombre che luci

Turismo italiano: la cronica assenza di strategie alla base di un declino da tempo annunciato

Turismo italiano: la cronica assenza di strategie alla base di un declino da tempo annunciato

Di Guido Bernardi, 3 Luglio 2014

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Alla vigilia della stagione estiva 2014, le prospettive dell’industria dei viaggi italiana proiettano più ombre che luci. Nel 2013 il turismo internazionale ha proseguito la sua crescita vigorosa sia di arrivi sia di introiti, lasciandosi definitivamente alle spalle la flessione del 2009. Secondo i dati diffusi dall’Organizzazione mondiale del turismo (Unwto Barometer, gennaio 2014), il comparto turistico ha vissuto, nel 2013, un anno di ulteriore rafforzamento dei viaggiatori internazionali, che hanno toccato quota 1,087 miliardi, con un incremento pari al 5% rispetto all’anno precedente. In tale contesto, l’Europa si conferma come l’area che ha attratto il maggior numero di turisti (563,4 milioni), seguita da Asia (248,1 milioni), Americhe (167,9 milioni), Africa (55,8 milioni) e Medio Oriente (51,6 milioni). Nella graduatoria 2013 delle destinazioni turistiche mondiali più frequentate, l’Italia si colloca quindi al quinto posto per gli arrivi internazionali e al sesto per gli introiti valutari.
E se ciò, a prima vista appare positivo, si legge sul rapporto Trip, elaborato dal Ciset della Ca’ Foscari di Venezia, «tutti i paesi considerati hanno chiuso il 2013 in crescita, anche se con andamenti diversi: Grecia (+5,3%), Portogallo (+5,1%) e Francia (+4,5%) si distinguono per i maggiori incrementi, nel numero di arrivi da turismo internazionale; Austria (+2,4%) e Italia (+2,2%) registrano invece gli aumenti più contenuti. Per il 2014, si prevede un consolidamento della crescita per tutti gli otto paesi considerati, escluso il Portogallo (+4,6%); l’Italia dovrebbe registrare un incremento dell’incoming pari al +3,1%, superiore a quello del 2013 ma sempre al di sotto dei tassi segnati dalle destinazioni concorrenti». E continua il rapporto: «Per quanto riguarda i paesi di origine, dei flussi turistici stranieri verso l’Italia, si osserva una generale stagnazione della crescita, e in alcuni casi un vero e proprio calo, degli arrivi dai principali mercati europei».
Se poi analizziamo la serie storica la situazione è tragica: «Nel dopoguerra», dice la Unwto, «su poco più di 25 milioni di viaggiatori internazionali, poco meno di 5 venivano allora in vacanza in Italia». Da allora, la nostra quota si è ridotta di decennio in decennio dal 19% del 1950 al 15,9% del 1960, e poi al 7,7% del 1970 (quando eravamo comunque i primi davanti al Canada, alla Francia, alla Spagna e agli Stati Uniti) e giù giù, dopo una breve risalita nel 1980, fino al 6,1% del 1990 (rimasto tale fino al 2000), per poi calare ancora al 4,6% del 2010 e infine al 4,4% di oggi. Due numeri: dal 1950 a oggi, i turisti stranieri che vengono in Italia si sono moltiplicati per dieci volte, da 4,8 a 47,8 milioni. Allo stesso tempo l’immenso popolo dei turisti di tutto il mondo, grazie all’impetuoso arricchimento soprattutto della Cina, della Corea e di altri paesi asiatici, si è moltiplicato per quasi 43 volte. Il che significa che noi siamo riusciti a fare nostra soltanto una fetta molto piccola della torta.
Come mai? Perché, accusa uno studio del Touring Club Italiano, «il comparto si avvale da anni di rendite di posizione ancorate al grande “turisdotto” delle città d’arte o delle aree costiere», ma c’è da sempre una «cronica assenza» di strategie: «Il turismo non è mai stato, e non è tuttora, un’opzione di sviluppo economico presa seriamente in considerazione dalla politica». Tutta colpa del Palazzo? No: il dossier infila infatti il dito nella piaga della mancanza anche di una «cultura dell’ospitalità». Troppi bidoni ai turisti, troppi disservizi, troppa scortesia verso chi viene a trovarci. Come se tutto ci fosse dovuto in quanto «paese più bello del mondo». Peccato, perché quella che è la nostra carta migliore, e cioè il nostro patrimonio culturale, potrebbe godere dei frutti di una stagione eccezionale.
Spiega infatti Emilio Becheri, coordinatore del rapporto Turistica realizzato da Mercury, che «nel 2011 (ultimo anno con dati definitivi) la maggiore quota di arrivi di turisti in Italia è determinata dal turismo delle città di interesse artistico e storico (d’arte), con il 35,6%, davanti al turismo delle località marine (balneare), con il 21,5%». Di più: «L’analisi dei differenziali rivela che l’aumento complessivo degli arrivi verificatosi nel periodo 2000-2010, pari a 23,692 milioni è imputabile in gran parte, per il 42,5%, all’aumento del turismo culturale, per il 20,2% alle località non classificate come turistiche, per l’11,3% alle località balneari, per il 10,9% alle località montane e per il 7,3% a quelle lacuali».
«Secondo le stime del Wttc (World Travel & Tourism Council), il valore aggiunto dell’industria turistica in Italia, le attività che possono considerarsi core business, è stato di 63,9 miliardi di euro, ovvero pari al 4% del Pil nazionale». Una quota bassissima, dice Gian Antonio Stella su Corriere.it. Che calcolando il valore aggiunto dell’intera economia turistica (dalle pasticcerie che forniscono i croissant agli alberghi, alle sartorie che fanno le camicie per i camerieri) sale fino a «161 miliardi, che corrispondono al 10,2% del Pil». Una percentuale assai lontana dai proclami guasconi di vari premier del passato, un po’ tutti concordi nel promettere «un turismo al 20% del prodotto interno lordo».
Cosa manca al turismo italiano per, almeno, mantenere le posizioni? Parecchie cose: intanto l’industria turistica italiana è estremamente frammentata; su 35 mila alberghi presenti in Italia solo poche centinaia fanno parte di catene alberghiere di qualche peso; il che significa: poca forza commerciale, carenti politiche di marketing; scarsi investimenti, poca professionalità. Oggi le maggiori catene italiane (Boscolo di Padova, Atahotels del gruppo Unipol, Starhotels), che pure hanno investito e aperto anche di recente strutture importanti e sono presenti con hotel di prestigio in Europa e negli Stati Uniti, superano di poco i 20 alberghi ciascuna. Un confronto impari con colossi stranieri del calibro degli americani di Hilton (540 alberghi in 78 Paesi) e Starwood (1.162 alberghi in 100 paesi), dei francesi di Accor (3.500 alberghi in 92 paesi) e degli spagnoli di Nh (400 alberghi in 25 paesi).
Dice ancora sul Corriere.it, Riccardo Franco Levi: «Guardando alle nostre città d’arte invase dagli stranieri e alle tante zone a consolidata vocazione turistica sulle nostre coste e montagne o considerando l’uso sempre più esteso dei servizi di prenotazione su Internet, si è tentati dal pensare che all’Italia possa anche bastare l’attuale offerta alberghiera fatta di piccole e medie imprese. Non è così. Le grandi compagnie di viaggio che muovono su scala mondiale le truppe del turismo organizzato hanno come primi e naturali interlocutori le grandi catene alberghiere. Con loro possono trattare, da pari a pari, pacchetti di prenotazioni contro pacchetti di stanze, trasferendo ai propri clienti la soddisfazione di accumulare punti da spendere in futuri viaggi e soggiorni, e la sicurezza di poter sempre contare su servizi e standard di qualità corrispondenti alle attese e al prezzo».
Se a ciò aggiungiamo le scarse infrastrutture, l’alto costo e la poca flessibilità del lavoro, la carenza di una politica promozionale del paese, l’assenza o quasi di incentivi fiscali, la scarsa considerazione di cui il turismo gode nelle stanze dei bottoni, il quadro è presto fatto.

Guido Bernardi è Presidente della società di consulenza Violet management

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