Riceviamo e volentieri pubblichiamo un estratto di una lunga lettera di Roberto Balzano: professionista attivo nel settore da oltre 20 anni, membro dell’Associazione direttori d’albergo (Ada), si occupa da tempo di management alberghiero e oggi è felicemente rooms division manager dell’hotel relais Monaco di Ponzano Veneto, in provincia di Treviso. Frutto di un’amara esperienza personale passata, la sua è una riflessione di carattere generale sul fenomeno del mobbing, sulle sue conseguenze psicologiche e ambientali, nonché sui modi per venirne fuori con coraggio e determinazione. Chi volesse inviare altri contributi personali su questo tema, tanto delicato quanto interessante, può farlo scrivendo a redazione@jobintourismeditore.it. Gli scritti più interessanti saranno pubblicati sui prossimi numeri di Job in Tourism.
I
n principio fu come vivere un sogno. Anni di gavetta, volontà e passione: ingredienti che hanno fatto di te un professionista rispettato e stimato; più un divertimento che un vero lavoro per chi ama ciò che fa. L’apprendere dai tuoi colleghi, una vivida curiosità, esperienze e percorsi formativi impegnativi ti hanno portato, finalmente, a raggiungere l’ambìta posizione che tanto hai desiderato: direttore d’albergo.
In principio fu come vivere un sogno: programmazione, analisi dei costi e dei ricavi, ampliamento dei segmenti di riferimento, pianificazione, e-commerce, relazioni sociali, marketing, creazione di un team motivato e vincente sono alcune delle attività che finalmente metti in pratica, giorno dopo giorno, con lo stesso amore con cui anni prima servivi un piatto al ristorante o preparavi un buffet colazioni. Sei portato, in tale situazione, spontaneamente a pensare che altre persone, intorno a te, abbiano in comune la stessa passione, trasparenza, conoscenza; lo stesso sorriso che doni agli altri, la tua stessa capacità di ascolto.
Ahimè, non è così e da quel sogno ti risvegli bruscamente: la realtà del nostro paese è costituita al 90% da strutture alberghiere a conduzione familiare e molto spesso, troppo spesso, fattori e dinamiche all’interno del «clan» determinano l’operatività della struttura. Ecco, allora, come un sogno si può trasformare in una farsa, in un incubo in cui non sai neanche bene come ci sei capitato. All’improvviso, tu che fino al giorno prima eri l’eroe, la persona giusta nel posto giusto, diventi il «cattivo» da emarginare, da allontanare, da vessare psicologicamente al punto da mettere i tuoi stessi colleghi, con cui hai sempre ben lavorato, contro di te, in una guerra senza senso e senza un vincitore. La mattina ti alzi, ti guardi allo specchio e stenti a credere che ciò stia accadendo, accadendo a te.
La legge lo chiama «mobbing»: un animale subdolo, viscido che ha la capacità di entrarti dentro, di minare la tua persona, le tue convinzioni, la tua dignità. Il termine mobbing deriva dall’inglese to mob e significa assalire, soffocare, vessare; nel linguaggio corrente, con esso si indicano oggi forme di vessazione, aggressione e danneggiamento perpetrate nei confronti dei lavoratori. Nello specifico, la Corte di cassazione ha recentemente stabilito che per mobbing si intende comunemente un comportamento del datore di lavoro che, con una condotta sistematica e protratta nel tempo e che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili, pone in essere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro. Da ciò si può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità (Corte di cassazione, sentenza numero 3.875-09). Per le vittime del mobbing le conseguenze, pertanto, possono essere considerevoli. Si riscontrano sintomi a carico della salute psicofisica e psicosomatica. Altre conseguenze possono poi essere l’isolamento sociale, l’insorgere di complicazioni familiari o finanziarie a causa della perdita del posto di lavoro. La legge parla, in merito, di risarcimento del danno esistenziale o biologico non patrimoniale, di demansionamento e burnout.
Ma tutto questo a noi poco importa: non è importante quante volte nella vita si può cadere, ma quante volte ci si rialza in piedi. Il dolore è un momento di crescita. Ti puoi sentire solo, senza un lavoro. E allora guardati dentro nel tuo silenzio: tu vali. Esci, pianta un seme, regala un sorriso, ascolta gli altri, ritroverai te stesso e la via che avevi smarrito. Nuove opportunità ti aspettano, nuove sfide. Il rancore, allora, lascia pian piano spazio alla voglia di rimettersi in gioco. Riprendi a sognare e riaccendi il tuo sguardo. Luigi Pirandello scrive: «Perché una realtà non ci fu data e non c’è; ma dobbiamo farcela noi, se vogliamo essere; e non sarà mai una per sempre, ma di continuo e infinitamente mutabile». Mantieni, pertanto, viva e vitale la convinzione nelle tue capacità, fai valere con serenità i tuoi diritti e qualsiasi situazione di abuso e maldicenza, per quanto ti possa ferire, avvilire, abbattere, non sarà mai tale per sempre. Alzati e riprendi il tuo cammino, vivi l’abbandono come opportunità di nuove esperienze, di conoscenza, di ricerca.
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