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Turismo responsabile, ovvero…

Dalle buone pratiche in hotel alla destagionalizzazione come leva occupazionale passando per gli impatti dell’overtourism e la questione degli affitti brevi: tutte le sfide del turismo responsabile in Italia secondo l'AITR, che quest'anno compie 25 anni di attività

Dalle buone pratiche in hotel alla destagionalizzazione come leva occupazionale passando per gli impatti dell

Di Silvia De Bernardin, 20 Novembre 2023

Da molti anni anni riunisce operatori turistici, organizzazioni ambientaliste, ONG, associazioni culturali, cooperative, operatori dell’accoglienza, imprese di servizi che portano avanti un modo di fare turismo incentrato sul rispetto dei territori e delle comunità locali che li abitano. AITR, l’Associazione Italiana Turismo Responsabile, compie 25 anni: un quarto di secolo nel quale molto è cambiato e, da fenomeno di nicchia, il turismo responsabile è diventato obiettivo condiviso – almeno sulla carta – da tutti gli attori della filiera. Ma è sufficiente eliminare la plastica dai bagni degli hotel per cambiare le cose? Come si trova la quadra in un Paese a fortissima vocazione turistica come il nostro eppure troppo piccolo per far fronte all’overtourism? Il turismo dei borghi e dei cammini può essere una soluzione? E perché di un turismo che sia responsabile anche per chi ci lavora si parla così poco? Ne abbiamo discusso con il presidente di AITR, Maurizio Davolio, per provare a capire insieme cosa c’è dietro l’aggettivo turistico più in voga del momento: sostenibile.

AITR compie 25 anni: come è cambiato in questi anni il turismo responsabile?

Quando siamo nati l’espressione “turismo responsabile”non esisteva neanche, l’attenzione a certe tematiche era molto scarsa, sia da parte degli enti pubblici che dell’industria turistica. Ai tempi, ci siamo dati come obiettivo quello di diffondere determinati principi e proporre buone pratiche a fronte di un’industria che produceva molti danni – quelle che chiamiamo le “patalogie” del turismo: la devastazione ambientale, la mancanza di rispetto per le culture locali e altri fenomeni gravi come lo sfruttamento sessuale dei minori e i traffici di denaro sporco e droga. Perché, visto da fuori, il turismo appare sempre un qualcosa di gradevole e divertente, ma dall’interno può presentare caratteristiche anche molto negative – un tema è proprio quello del lavoro, spesso precario e sottopagato. In 25 anni le cose sono cambiate parecchio, la sensibilità è cresciuta, oggi di turismo responsabile si parla in moltissimi documenti – delle Nazioni Unite, dell’Europa, dell’Organizzazione Mondiale del Turismo. Troviamo citata l’esigenza di sviluppare il turismo in maniera sostenibile in moltissimi piani di sviluppo sia nazionali che dei piccoli territori. Anche l’industria turistica ha fatto passi in avanti, seppur a macchia di leopardo. Oggi, dalle compagnie aeree a quelle di navigazione e crocieristiche ai gruppi alberghi fino ai tour operator tutti “proclamano” di avviar avviato un percorso di sostenibilità. Dirsi sostenibili è diventato “trendy”: a volte è vero, a volte però si tratta semplicemente di operazioni di marketing o greenwashing. Regna una grande confusione, anche perché per i termini “sostenibile”, “responsabile”, “ecologico” non esiste un riconoscimento giuridico e ciascuno li può usare come vuole. Lato nostro, se da una parte continuiamo a diffondere buone pratiche, dall’altra oggi siamo impegnati anche a monitorare certe derive opportunistiche basate unicamente sulla convenienza.

A proposito di marketing e greenwashing, se guardiamo all’ospitalità, quali sono le prassi che posizionano nei fatti una struttura ricettiva sul mercato come “responsabile”? Spesso sembra che basti eliminare i kit monouso dal bagno…

Per quanto riguarda gli alberghi, è doveroso premettere che è molto diverso se si parla di un hotel già esistente, magari vecchio, o di un albergo di nuova costruzione. È chiaro che, in quest’ultimo caso, è più facile essere attenti soprattutto dal punto di vista energetico e idrico. Nel caso degli hotel datati, la faccenda diventa molto più costosa e complicata. In generale, sono due le politiche adottabili: gli investimenti strutturali, che riguardano in primo luogo l’approvvigionamento energetico e la riduzione dei consumi di energia e di acqua, e gli aspetti comportamentali, come l’eliminazione delle dosi monouso, la riduzione degli sprechi alimentari, l’abolizione della plastica. Noi, per esempio, partecipiamo al progetto europeo COSME, che si basa sulle scienze comportamentali e ha un obiettivo: far sì che l’ospite adotti per default comportamenti sostenibili in modo che questi diventino automatici, facili e gradevoli.

Facciamo qualche esempio?

Proporre ai buffet piatti piccoli perché l’ospite possa servirsi solamente di ciò di cui ha bisogno, senza sprechi, informandolo che può tornare a servirsi tutte le volte che vuole. Oppure, quando chiede un taxi, suggerirgli garbatamente, se il luogo che deve raggiungere non è distante, di fare una passeggiata perché in questo modo potrà risparmiare, stare all’aria aperta, vedere cose che dall’auto non vedrebbe e inquinare meno. O, ancora, invitarlo a usare responsabilmente luce e aria condizionata.

Non c’è il rischio che sembrino azioni adottate solamente per ridurre i costi?

Infatti la comunicazione è fondamentale. Il confort non deve mai ridursi, l’hotel non deve apparire “tirchio”, ma ben organizzato. Pensiamo agli asciugamani: di solito si dice agli ospiti di lasciarli per terra se desiderano che vengano cambiati. Invece, l’hotel potrebbe informare gli ospiti che, di default, la prassi è il cambio ogni tre giorni e che se si vogliono cambi più ravvicinati è sufficiente chiederlo, senza costi aggiuntivi. Più che buone pratiche, le chiamiamo “tattiche”.

Considerando la struttura del sistema ricettivo italiano – costituito per la maggior parte da alberghi indipendenti, spesso in affitto e a gestione familiare – quella comportamentale potrebbe essere forse una via dai risultati più rapidi rispetto a quella degli investimenti strutturali…

Certamente. È chiaro, però, che serve che anche il personale sia formato e coinvolto. Se la raccolta differenziata è in capo a chi rifà le camere, per esempio, è fondamentale che chi se ne occupa sia sensibilizzato rispetto al tema.

Dal momento che, come ricordava, non esiste un riconoscimento giuridico univoco per il termine “sostenibile”, una volta adottate determinate prassi, ha senso per un hotel intraprendere un percorso di certificazione?

Le certificazioni di sostenibilità (Ecolabel UE, GSTC, Travelife Sustainability Certification, TourCert, per citare le più note) possono essere utili perché costringono a un impegno serio e costante, però sono poco conosciute sul mercato italiano mentre sono più conosciute dagli stranieri. Hanno ovviamente un costo. Quindi la scelta dipende dalle politiche commerciali dell’albergo, dalla disponibilità economica, dall’avere una persona all’interno dello staff che se ne possa occupare.

Parlando di personale, c’è un aspetto del quale si parla meno nel dibattito sul turismo responsabile, ovvero la “sostenibilità” del lavoro. Però poi ci si scontra con la difficoltà a reperire collaboratori…

Quello del lavoro è un tema che può essere affrontato da diversi punti di vista: c’è la questione dei livelli di retribuzione, delle mance, del nero. Se guardiamo all’attrattività del turismo, noi portiamo avanti l’idea della destagionalizzazione come chiave per sostenere il lavoro nel settore. Superare la stagione lunga è importante per tante ragioni, per attenuare il cosiddetto overtourism, ma non solo. L’allungamento della stagione turistica va a vantaggio sia dell’impresa, che può spalmare i costi generali su un’apertura più lunga e ottenere ricavi più alti, ma anche dei lavoratori, perché aiuta la stabilizzazione dei contratti di lavoro. Le destinazioni marine e montane soffrono moltissimo la stagionalità, che rende meno attrattivo lavorare nel turismo proprio a causa dei contratti frammentati. Per sostenere il lavoro bisognerebbe distribuire gli eventi culturali durante tutto l’anno, far sì che la promozione degli enti pubblici copra più mesi, incentivare prodotti turistici come i cammini e il cicloturismo, che aiutano moltissimo la destagionalizzazione.

A proposito di overtourism, è un tema strettamente legato a quello degli affitti brevi, che sta cambiando il volto di molte destinazioni, non solamente dal punto di vista turistico. Qual è la vostra posizione su questi fenomeni?

Quella sugli affitti brevi è una preoccupazione che condividiamo con tanti altri per le conseguenze che genera. Ogni notte, nel mondo, 4 milioni di persone dormono con Airbnb: questo ci dà le dimensioni di un fenomeno che sta causando un cambiamento abitativo importante, con lo spopolamento dei centri storici e l’aumento dei prezzi degli affitti per studenti e lavoratori. In generale, il punto è che c’è molta differenza tra località turistiche nate per il turismo e località storiche. Un conto è Venezia, un altro è Las Vegas. Roma ha 26 milioni di turisti all’anno, Orlando 74, più di Roma, Milano, Venezia, Firenze messi insieme, ma non ha il problema dell’overtourism perché è strutturata per riceverli. Pensiamo ai nostri borghi nati nel Medioevo: è chiaro che di fronte a certi flussi “scoppiano” rendendo dura la vita ai residenti. Il problema non è la quantità di arrivi, ma la capacità di carico di una destinazione rispetto alle dimensioni, alle infrastrutture, al numero di posti letto e di abitanti.

Il problema è che l’Italia è un Paese “piccolo”, ma a forte vocazione turistica. Qual è – se c’è – la via da battere per un turismo che non sia “over”?

Una proposta che noi facciamo, per esempio, è che il gettito dell’imposta di soggiorno, lì dove viene applicata, non vada né nel calderone generale dei bilanci comunali né nella promozione del territorio, ma in azioni che siano davvero a vantaggio sia della comunità locale che dei turisti: l’arredo urbano, il verde pubblico, i parcheggi, il trasporto pubblico locale, il superamento delle barriere architettoniche, gli eventi culturali, gli impianti sportivi. È così che il turismo produce sia un miglioramento della vita dei residenti che della qualità del soggiorno degli ospiti, a vantaggio di tutti.

Prima citava il turismo dei cammini e dei borghi. Sono prodotti turistici che funzionano davvero o, anche qui, fa molto gioco il marketing?

Le politiche di riqualificazione dei cammini degli ultimi anni e la pandemia hanno dato una spinta importante, che non si è esaurita. C’è una crescita molto forte di queste forme di turismo, sulle quali abbiamo davvero un primato. Faccio un esempio: la Via degli Dei ha fatto nascere lungo il percorso 45 microimprese tra ricettività, ristorazioni, negozi, tour operating, guide, trasporto bagagli. Intorno a queste proposte, nascono posti di lavoro dove altrimenti ci sarebbero emigrazione e spopolamento. Qui non sono i numeri assoluti che contano, ma quelli relativi. I numeri dei turisti sulla Francigena non vanno confrontati con quelli sulla costa adriatica o a Firenze, ma guardati rispetto ai territori dove quel turismo si sviluppa. Sono numeri importanti perché sono esattamente quelli che servono a quelle realtà per rigenerarsi, per dare opportunità imprenditoriali e occupazionali alla gente del posto, in modo particolare ai giovani, che così non vanno via – e nel turismo trovano lavoro.

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