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Stelle, forchette e cappelli…

La collezione di riconoscimenti di chef Giuseppe Mancino del Piccolo Principe di Viareggio

La collezione di riconoscimenti di chef Giuseppe Mancino del Piccolo Principe di Viareggio

Di Massimiliano Sarti, 6 Novembre 2014

Due forchette Gambero Rosso, le stelle Michelin che da pochi giorni sono diventate due e, sempre da quest’anno, anche un cappello delle Guide de L’Espresso. Il Piccolo Principe, ristorante gourmand del viareggino Grand Hotel Principe di Piemonte, fa incetta di riconoscimenti e consolida così la propria posizione nel firmamento della cucina italiana. Al timone del locale, un giovane chef campano: Giuseppe Mancino, oggi appena trentatreenne, guida il Piccolo Principe ormai da nove anni ed è quindi il principale artefice dei successi del ristorante. La sua è una proposta ricercata, con solide fondamenta nella tradizione culinaria nazionale, arricchite da una fornita carta dei vini: i piatti, tutti realizzati con prodotti stagionali, spaziano dalla cucina tipica della Versilia e della Toscana a una rivisitazione della stessa in chiave più contemporanea.

Domanda. Stelle, forchette, cappelli… Quanto contano oggi, a livello personale e professionale, tutti questi riconoscimenti?
Risposta. Molto. Soprattutto quando si vogliono raggiungere determinate altezze. E poi, a un certo punto, ci si fa pure l’abitudine: è la stessa cosa che capita a chi si trova con un po’ di soldi in tasca e comincia a fare la bella vita. Poi è difficile rinunciare a certe cose.
D. Eppure, proprio nell’anno in cui voi conquistavate la prima stella, era il 2008, un maestro come Gualtiero Marchesi faceva il “gran rifiuto” e si sottraeva polemicamente al giudizio della Michelin…
R. Credo che lui sia arrivato a un punto in cui si può permettere certe scelte. Io però ritengo che le guide abbiano ancora la loro funzione. A questi livelli, i piatti costano davvero tanto. È giusto perciò che ci sia qualcuno di esterno che giudichi il nostro lavoro e che faccia gli interessi dei clienti.
D. A proposito di commensali: al Principe di Piemonte lei gestisce anche un altro ristorante, il Regina, dalla proposta un po’ più schietta e a buon mercato. Quanto è utile avere a disposizione due locali nella definizione della propria proposta culinaria?
R. Molto, perché così abbiamo la possibilità di dare una doppia scelta ai clienti: in termini sia di gusti, sia di portafoglio. L’importante, in questi casi, è differenziare la tipologia di cucina, ma non la mano e la mentalità con cui i piatti vengono realizzati. Negli hotel, in particolare, i commensali sono spesso persone assolutamente normali, che desiderano mangiare qualcosa di diverso. Il nostro compito è perciò quello di farli sentire a loro agio e di accoglierli come se fossero a casa loro. E se da una parte ci sono sicuramente i clienti curiosi, che tornano anche quattro serate di fila per assaggiare tutte le portate del menu, da un altro canto c’è anche l’ospite un po’ più difficile, a cui bisogna preparare qualcosa di diverso perché nel menu non c’è nulla che gli piaccia…
D. Anche quando chiede una semplice pasta al pomodoro?
R. Assolutamente sì. Non ci si può permettere di fare gli schizzinosi.
D. E se, estremizzando la situazione, qualcuno sbaglia un accostamento vino-piatto, magari ordinando una bottiglia da oltre mille euro?
R. Lo accontentiamo lo stesso. Contro i gusti personali non si comanda. Poi naturalmente dipende da chi ti trovi di fronte. Qualche consiglio lo si prova sempre a dare…
D. Chi sono, per curiosità, i clienti più complicati?
R. Difficile generalizzare, anche perché le cose cambiano velocemente. I cinesi, per esempio, pur provenendo da una cultura molto lontana dalla nostra, amano particolarmente il vino rosso e adorano qualsiasi cosa sia made in Italy. I russi, forse, si fanno maggiormente condizionare dal prezzo. Ma non è poi sempre vero e oggi accettano senz’altro i consigli più di un tempo. E poi ci può essere sempre l’italiano che non sente ragioni e compra per forza le proposte più care solo per far colpo con qualche bella ragazza.
D. Qual è il suo personale modello di equilibrio tra tradizione e innovazione?
R. Credo che le basi siano fondamentali. Prima di cimentarsi nel nuovo bisogna conoscere la cucina della nonna: come si tagliano le verdure, come si fa la besciamella… Dopo si può acnhe pensare alla fase creativa.
D. Mi sembra normale: solo le buona fondamenta permettono di costruire edifici solidi…
R. Sarebbe scontato se non fosse per l’attuale grande fortuna mediatica della nostra professione: molti giovani, oggi, si illudono di raggiungere subito vette toccabili esclusivamente dopo anni di sacrifici. Un percorso lungo, che parte dalla chimica elementare della cucina. Conoscere le tecniche più innovative senza le basi serve a poco.
D. Qual è allora il suo modello ideale di cucina?
R. La tensione verso il corretto equilibrio tra gli elementi estetici del piatto e un gusto interessante fin dal primo assaggio. Nel delicato rapporto tra tradizione e innovazione, la presentazione serve soprattutto a stupire i commensali, mentre i sapori dovrebbero suonare familiari al palato, in modo da ridurre la distanza tra vecchio e nuovo. Per ultimo, ma non meno importante, occorre anche considerare il luogo dove si lavora. Una cosa è cucinare nella grandi città come Milano e Roma, un’altra è operare in località più piccole come Viareggio…
D. Vuol dire che nelle prime ci si può permettere qualcosa di più?
R. Meglio dire che nelle seconde occorre prestare ancora più attenzione a quello che si propone. Solo così noi abbiamo potuto aprire il nostro ristorante anche al pubblico esterno e ottenere tutti i nostri successi.
D. Ma allora l’Osteria Francescana di Massimo Bottura? Lui opera in una media città come Modena, però è oggi forse il più importante esponente dell’avanguardia culinaria italiana…
R. Vero, ma il discorso è simile a quello di Marchesi. Ormai lui ha un suo brand, che gli permette di andare oltre i limiti del proprio ambiente. Anche noi, peraltro, non rinunciamo a inserire nel menu qualche piatto più azzardato degli altri. Ma cerchiamo sempre l’equilibrio nell’offerta. E poi anche dietro alla ricetta più semplice c’è spesso un grandissimo lavoro.
D. Se dovesse far cento una sua portata: quanto contano rispettivamente le materie prime, la presentazione e la preparazione?
R. La scelta degli ingredienti vale il 75%. Dopo viene la mano del cuoco, che serve a smussare gli angoli, e infine l’estetica.
D. Come seleziona, quindi, lei gli alimenti?
R. Con un po’ di esperienza e molta curiosità. A volte le idee nascono per caso: una volta, per esempio, ho assaggiato, in un altro ristorante, un piatto con robiola e fichi e da lì ho creato un dolce al formaggio, aggiungendo semplicemente un altro paio di ingredienti come la meringa e le mandorle. Certo ci vuole anche la capacità di presentire il gusto in bocca…
D. Un po’ come l’orecchio musicale?
R. Esattamente: è una cosa che in parte acquisisci con l’esperienza e in parte è innata.
D. Per concludere: come si costruisce una buon rapporto tra cucina e sala?
R. Ancora una volta è la curiosità il segreto. Noi della cucina, per esempio, proviamo spesso a metterci dalla parte del cliente, testando le nostre ricette da ogni punto di vista: dall’ergonomia della portata, che deve essere sempre facile da mangiare, alla calibrazione precisa degli ingredienti, fino alla scelta del piatto in grado di esaltare al meglio la preparazione. Chi si trova in sala, invece, ha il delicato compito di spiegare bene la proposta della cucina, facendo possibilmente un po’ di show. È come a teatro: ogni sera c’è uno spettacolo diverso con gli stessi attori.

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