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Più brand in Italia ma le transazioni non decollano

Continua lo sviluppo delle catene nella Penisola. Il paese stenta tuttavia a trovare il posto che meriterebbe nel contesto degli investimenti alberghieri europei

Continua lo sviluppo delle catene nella Penisola. Il paese stenta tuttavia a trovare il posto che meriterebbe

Di Massimiliano Sarti, 8 Marzo 2018

Cresce l’appeal dell’Italia tra operatori e investitori, mentre la penetrazione di brand e catene nella Penisola aumenta a un ritmo lento ma apparentemente inesorabile. Il peso del mercato tricolore sul totale delle transazioni alberghiere europee rimane però abbastanza marginale, così come appare sempre più difficile elaborare previsioni attendibili sull’andamento futuro della domanda di ospitalità. È questo il senso profondo di quanto si è detto in occasione della presentazione del report «Hotels & Chains in Italy 2018», organizzata recentemente a Milano dal Met Bocconi
L’ormai tradizionale studio elaborato da Horwath Htl in collaborazione con Confindustria Alberghi (Aica) e Cassa Depositi e Prestiti racconta infatti che, tra il 2013 e l’inizio del 2018, il numero di hotel di catena in Italia è cresciuto del 13,8%, passando dai 1.308 alberghi di cinque anni fa, pari al 3,9% del totale nazionale, a quota 1.488 (4,5%). Nello stesso periodo la quantità di camere “brandizzate” è salita del 14,1%: da 143.968 stanze (il 13,2% dell’offerta tricolore complessiva) a 164.196 (15%). A livello di performance, ha raccontato il presidente Aica Giorgio Palmucci citando fonti Eurostat, «nei primi dieci mesi del 2017 gli arrivi internazionali sono aumentati del 4,7% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Ma si consolida pure il ruolo del turismo nel contesto dell’economia tricolore: appena nel 2011, il settore dei viaggi e dell’ospitalità contribuiva infatti per l’8,6% alla formazione del prodotto interno lordo nazionale e al 9,7% del totale occupati. Nel 2027, secondo il World Travel & Tourism Council, esso rappresenterà ben l’11.9% del pil, impiegando al contempo il 14,5% dei lavoratori italiani. Nei prossimi dieci anni, inoltre, la voce esportazioni del turismo crescerà dagli attuali 37,2 miliardi di euro a 47,2 miliardi».
Al momento, racconta quindi il report, gli hotel raccolgono il 76,2% degli arrivi e il 65,6% dei pernottamenti totali registrati nelle strutture ricettive tricolore. Dopo la lunga crisi innescata dal crack Lehman Brothers a fine 2007, il settore dell’ospitalità ha intrapreso la via della ripresa solo nel 2014, quando il numero di ospiti è salito dell’1,9% rispetto al 2013 e i pernottamenti dello 0,1%. Un rilancio consolidatosi negli anni successivi soprattutto grazie all’incremento della domanda internazionale, che ha gradualmente sostituito quella domestica, tanto da rappresentare oggi circa la metà del mercato alberghiero italiano. E a conferma di ciò ci sono ancora una volta i dati Eurostat, stando ai quali il nostro paese è attualmente la seconda destinazione europea per numero di arrivi internazionali dopo la Spagna.

La matematica non è sempre una scienza precisa

Il problema, come accennato, sta nel fatto che cifre tanto positive non paiono tradursi in coerenti attività di investimento e sviluppo. O almeno è estremamente difficile dimostrarlo. È vero infatti che una recente ricerca Ey ha definito il 2017 un anno record per le transazioni alberghiere nazionali, le quali avrebbero raggiunto la soglia degli 1,6 miliardi di euro, dagli 1,48 miliardi registrati nel 2016. Ma un altro studio, citato dal senior partner & managing director di Horwath Htl, Zoran Bacic, racconta una storia alquanto diversa: i dati di Real Capital Analytics ridimensionano decisamente le performance dell’anno appena passato, quando il valore degli investimenti alberghieri totali nella Penisola si sarebbe addirittura fermato sotto i 600 milioni di euro, rappresentando appena il 2,6% del totale europeo. Solo nel 2016, la stessa società di analisi aveva invece registrato in Italia transazioni per 1,2 miliardi di euro (6,3% del dato complessivo riferito al Vecchio continente). Al di là però dei valori assoluti, e del fatto che la matematica in determinati contesti non è poi una scienza così precisa, tali cifre sottolineano soprattutto una certa marginalità del nostro mercato rispetto al resto dell’Europa. Un’evidenza che mal si sposa con le potenzialità della destinazione Italia, ma che sarebbe confermata anche dai numeri recentemente elaborati da Jll: stando alle cifre pubblicate sul Sole 24 Ore, le transazioni alberghiere nel nostro paese sarebbero infatti rimaste l’anno scorso sotto il miliardo di euro (nel 2016 avevano invece raggiunto gli 1,2 miliardi), rappresentando appena il 5% del totale europeo.
Trovare la direzione giusta in un contesto popolato da dati tanto dissonanti non è quindi un’impresa facile. Ma capire cosa ci riserva il futuro è probabilmente ancora più difficile, ha osservato Giorgio Ribaudo. Ciononostante, il curatore della ricerca Horwath Htl ha provato a porre i trend degli hotel di catena italiani in una prospettiva lunga, cercando di capire quali movimenti della curva di domanda potrebbero impattare sui flussi di cassa attesi delle strutture ricettive: «Durante il trentennio 1986-2016, gli arrivi turistici complessivi in Italia sono cresciuti a un tasso medio annuo del 2,5%. Un trend che affatto sorprendentemente ha rispecchiato quello degli arrivi negli aeroporti nazionali, tanto che tra i due dati si è registrato un coefficiente di correlazione pari allo 0,56 (in una scala compresa tra -1, il minimo, e +1, il massimo, ndr)».
Non esiste tuttavia evidenza di simili corrispondenze con nessun altro degli indici chiave dell’economia nazionale: né con la crescita del pil (-0,01), né con l’aumento dei salari reali (0,32), né con il tasso di disoccupazione (0,12). Ma neppure con l’andamento dei mercati immobiliare residenziale (0,2) e automotive (0,2), o ancora con gli indici principali della Borsa italiana (-0,04). «Persino la posizione del nostro paese nella classifica “travel & tourism competitiveness” elaborata dal World Economic Forum fatica a spiegare gli scostamenti della domanda turistica», ha spiegato Ribaudo.

Il turismo non dipende più dall’economia nazionale

In sostanza, l’evoluzione dell’economia nazionale non rispecchia più l’andamento dell’industria turistica tricolore, che si sta al contrario dimostrando un settore decisamente anticiclico. E la ragione di tutto ciò va proprio ricercata nella crescente internazionalizzazione della domanda, accompagnata da una progressiva diversificazione delle fonti di business, che ormai spaziano ben oltre i tradizionali mercati outbound di Germania e Stati Uniti.
Per capire dove si annidano le opportunità future, Ribaudo ha quindi provato a concentrare la propria attenzione su alcuni trend di portata mondiale. Tra questi, il surriscaldamento globale potrebbe per esempio avere ripercussioni sulle destinazioni montane, riducendone ulteriormente la stagionalità. Al contrario, le temperature più alte sarebbero destinate a generare ricadute benefiche sulle mete balneari. E le località marine del Centro-Nord Italia potrebbero sottrarre nel medio-lungo periodo quote di mercato alle regioni meridionali più calde. Un altro fattore potenzialmente rilevante è quindi la tecnologia, il cui impatto si muoverebbe tuttavia in due direzioni apparentemente contraddittorie: da una parte spingendo i soggiorni brevi, favoriti dal continuo miglioramento dei collegamenti, da un altro patrocinando il ritorno delle vacanze lunghe, ora però declinate soprattutto nelle varianti detox e slow tourism.

Negli ultimi dieci anni sono sorte decine di nuove catene alberghiere

Sono insomma molteplici gli scenari possibili. E spesso di non facile definizione. Ma come si traduce tutto ciò nel contesto dello sviluppo dei brand alberghieri in Italia? «I marchi continueranno a espandersi, tanto che nel 2020 prevediamo qualcosa come 250 catene attive nel paese, di cui 105 di origine internazionale», ha rivelato sempre Ribaudo. Già oggi, l’Italia è il paese con il maggior numero di brand in Europa (227) dopo la Spagna (240). Salirà di conseguenza anche la quantità di hotel di catena, che supereranno quota 1.600: «Un dato significativo, soprattutto se inquadrato nel giusto contesto. Perché degli oltre 33 mila alberghi attualmente censiti nella Penisola, solo circa 3 mila sono in realtà veramente appetibili per i gruppi dell’hôtellerie. Per quanto riguarda le camere, infine, stimiamo un ulteriore incremento di 18 mila stanze, per un totale che dovrebbe oltrepassare le 182 mila unità».
Secondo i dati ufficiali raccolti durante la ricerca, lo sviluppo più consistente dovrebbe quindi riguardare le catene internazionali. Ma anche in questo caso i dati vanno interpretati alla luce del giusto contesto: «I gruppi locali tendono a rivelare meno informazioni riguardo alle loro intenzioni di espansione», ha infatti fatto notare Ribaudo. E questo sia perché le loro strategie sono spesso più frenetiche e imprevedibili, sia perché le loro attività di comunicazione hanno molte volte orizzonti più limitati. «Non solo: negli ultimi cinque anni, le compagnie nazionali sono quelle cresciute di più, con decine di gruppi che hanno superato la fatidica soglia delle cinque proprietà in portafoglio (il minimo per essere considerati catena dal rapporto Horwath Htl, ndr). In realtà, nell’attuale contesto di mercato, gli operatori italiani godono di un grado di flessibilità maggiore rispetto e quelli stranieri, potendo puntare su modelli di business differenziati ed essendo più frequentemente disposti a considerare destinazioni secondarie e terziarie, fino alla gestione di resort stagionali, in grado di garantire marginalità inferiori ma costanti».
La crescita dei brand, inoltre, si declinerà soprattutto nelle forme dei contratti di affitto e di franchising: «Segno che la maggior parte dei progetti saranno supportati da fondi, investitori istituzionali o compagnie di asset management», ha sottolineato il curatore dell’indagine. «I segmenti in cui si assisterà allo sviluppo maggiore dei brand (in senso relativo) saranno poi quelli economy (+30% medio annuo tra 2013 e 2017) e lusso (+7%). Nel primo caso si parte però da livelli molto bassi. Sarà perciò molto interessante capire l’impatto che le catene avranno sul mercato dei budget hotel. La maggior parte delle operazioni riguarderà quindi attività di re-branding, mentre pochissimi sono i progetti nuovi in pipeline».
Con la notevole eccezione del rilancio dell’ex complesso pugliese di Nova Yardinia (790 camere totali), il numero più consistente di stanze “brandizzate” verrà infine aperto a Roma, che da questo punto di vista sarà la destinazione più frizzante dei prossimi due anni. A seguire, nell’ordine, Firenze, Venezia e Milano. Ma anche la Sicilia farà la propria ricomparsa tra le mete più appetite per lo sviluppo delle catene. Non a caso, negli ultimi due anni il prodotto Mare Italia ha registrato numeri importanti, favoriti soprattutto dalla recente risalita della domanda domestica, che ha in parte abbandonato le altre destinazioni mediterranee.

Per chi volesse approfondire, la versione executive del report Horwath Htl è disponibile (in inglese) all’indirizzo: https://goo.gl/oqh48P

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