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Location, location… e personale

Portrait by Lungarno Collection: tutto comincia da autenticità e conoscenza delle destinazioni

Portrait by Lungarno Collection: tutto comincia da autenticità e conoscenza delle destinazioni

Di Massimiliano Sarti, 16 Luglio 2015

Location, location, location. Tutto parte da lì. Ancora oggi e anche per un segmento super esigente come quello del lusso. A fare la vera differenza è prima di tutto la destinazione, poi viene il resto. «Però ogni location porta con sé degli obblighi», spiega Valeriano Antonioli, amministratore delegato della Lungarno Collection. Il gruppo, di proprietà della famiglia Ferragamo, conta su un totale di otto strutture ricettive, tra alberghi, ville e resort, compresi due boutique hotel extra lusso: i Portrait di Roma e Firenze. «Di questi», prosegue Antonioli. «uno si trova in via Condotti, l’altro su Ponte Vecchio. È chiaro che due indirizzi tanto importanti meritino senz’altro servizi all’altezza. Nel caso della struttura fiorentina, la più recente, abbiamo per esempio pensato di costruire un luogo dove offrire ai nostri ospiti un’esperienza intima a due passi da uno dei luoghi più affollati della città: una sorta di isola felice, da dove osservare tutta l’attività che ferve ogni giorno sul ponte, coccolati e riveriti dal nostro staff».

Domanda. Il concetto è chiaro. Ma non mi pare a prima vista così tanto diverso da quello di molti altri hotel del segmento lusso. Come provate a differenziare la vostra proposta?
Risposta. Costruendo una relazione vera con i nostri ospiti: contattandoli ancora prima che essi giungano da noi, in modo da capire quali siano le loro esigenze e costruire un’esperienza fiorentina ottimale e definita in ogni dettaglio. D’altronde, oggi il tempo è un elemento fondamentale del vero lusso.

D. Non nuovo anche questo…
R. Vero, però da noi ci sono meno procedure e più autenticità.

D. Mi faccia capire.
R. Una volta una nostra cliente del Portrait Roma ha scritto una recensione significativa. Più o meno il testo diceva così: «Anche i grandi brand dell’hôtellerie internazionale, quando prenoto, mi inviano questionari approfonditi prima del mio arrivo al fine di analizzare le mie esigenze. La differenza tra voi e loro è però che nei Portrait tutto il personale è perfettamente al corrente di quello di cui ho bisogno e mi aiuta a gestire il tempo in modo discreto e silenzioso. Altrove l’unico referente è il guest relation manager, che devo cercare, aspettare… E se per caso non è in sede, cominciano i problemi…».

D. Tutto parte dal personale, insomma: come lo selezionate e quali caratteristiche deve avere?
R. Cerchiamo soprattutto persone con la giusta attitudine; risorse felici di far felici i clienti: niente librone degli standard, ma un approfondito sistema di analisi psico-attitudinale, che ci consente di selezionare team omogenei pur nella diversità delle personalità di cui sono composti.

D. Il che cosa significa in termini concreti?
R. Al Portrait Firenze abbiamo assunto 35 persone per 37 camere. Ebbene, tra queste 35 risorse, contiamo ben 12 nazionalità differenti, compresi dei collaboratori di origine araba, russa e israeliana. Abbiamo costruito la squadra in questo modo, perché desideravamo che nell’hotel fosse rappresentato il più ampio ventaglio possibile di lingue e culture diverse. Naturalmente una tale varietà di provenienza significa avere a che fare con altrettanti approcci differenti al lavoro. Ciononostante siamo riusciti a formare un team in grado di condividere il medesimo senso profondo dell’ospitalità. Ed è tutta una questione di attitudine.

D. L’esperienza non conta nulla quindi?
R. Certo che conta, ma in seconda battuta e non necessariamente solo in ambiti alberghieri. Soprattutto nei nostri Portrait, dove non esiste il classico desk della reception, ma una lobby in cui accogliamo gli ospiti all’arrivo con un drink. L’idea, insomma, era quella di creare un vero life style team e, per riuscirci, abbiamo utilizzato un metodo preciso: un terzo del personale doveva mostrare attitudine e padronanza delle lingue, un terzo conoscere bene Firenze e un terzo, questo sì, avere alle spalle una buona esperienza alberghiera.

D. Un bel mix davvero…
R. Sì, certo. Ma attenzione: non tutti i team possono essere modulati in questo modo. In reparti come il food and beverage, l’esperienza gioca un ruolo molto più importante. Altrimenti sarebbe impossibile lavorare in cucina. E in ogni caso, la formazione è un altro aspetto fondamentale di un servizio eccellente. Noi, per esempio, contiamo su un programma chiamato Portrait University, che tra le altre cose garantisce un corso di tre settimane a ogni nuovo assunto, con una serie di attività concentrate soprattutto sul perfezionamento di soft skill quali la capacità di lavorare bene in squadra. Ma non finisce qui: il medesimo programma prevede anche che ciascun dipendente a contatto con gli ospiti frequenti personalmente due musei e due ristoranti diversi della città ogni mese. Al posto di tante procedure abbiamo insomma preferito puntare su una conoscenza autentica dei luoghi, per offrire agli ospiti consigli genuini, basati su esperienze reali. Senza sottovalutare, inoltre, i benefici motivazionali che tali stimoli culturali assicurano ai nostri collaboratori.

D. Autenticità, spontaneità, genuinità… Tutti senz’altro valori importanti per chi lavora nell’ospitalità. Dall’altra parte, però, esiste anche il rovescio della medaglia: il rischio cioè che tanta affabilità possa sfociare nell’invadenza. Come si riesce quindi a individuare il giusto confine, il limite da non oltrepassare in un contesto delicato come quello del lusso?
R. Ancora una volta è una questione di attitudine e di sensibilità: caratteristiche che difficilmente si possono insegnare, ma che bisogna individuare già in fase di selezione. Normalmente, però, posso dire che più una persona è abituata a scegliere e a decidere in autonomia, più in genere è in grado di avvertire quale sia la giusta distanza da mantenere con gli ospiti. Che poi si tratta di una misura differente per ogni persona. Di solito noi lo capiamo già al primo contatto pre-soggiorno: se la risposta è ricca di particolari, è probabile che si tratti di un cliente piuttosto affabile; due righe striminzite di riscontro sono invece spesso il segnale di una certa riservatezza… O di molta fretta. E allora il momento decisivo, quello in cui si riesce davvero a comprendere chi ci si trova di fronte, è quello dell’accoglienza nella lobby. Poi naturalmente l’intero team si confronta quotidianamente, condividendo quello che ciascuna risorsa ha scoperto a proposito degli ospiti: per chi soggiorna da noi, scoprire al mattino che l’informazione fornita alla governante la sera prima è stata comunicata subito al ricevimento scatena immancabilmente un vero effetto wow. Come peraltro ben dimostra proprio la recensione di cui ho parlato all’inizio dell’intervista.

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