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Le parole del recruiting: quali scegliere e come usarle

L’analisi e i consigli dell’esperta di comunicazione per le HR Roberta Zantedeschi per progettare e scrivere annunci di lavoro concreti ed efficaci

L’analisi e i consigli dell’esperta di comunicazione per le HR Roberta Zantedeschi per progettare e scriv

Di Silvia De Bernardin, 3 Maggio 2024

Davanti a job description spesso molto simili le une alle altre e annunci di lavoro vaghi o infarciti di espressioni ricorrenti, delle quali si è però perso il significato, il dubbio è legittimo: e se l’attuale difficoltà del settore alberghiero nel trovare e trattenere le persone non avesse a che fare solamente con le dinamiche proprie dell’hospitality, ma anche con il linguaggio scelto dalle aziende per rivolgersi e parlare ai candidati, raccontare chi sono e cosa offrono? Abbiamo girato questa domanda a Roberta Zantedeschi, HR Business Writer ed esperta di Comunicazione efficace, che in questa intervista dall’ultimo numero del magazine di “Job in Tourism” (sfogliabile a questo link) ci spiega quali parole scegliere e come usarle per rendere più concreta, personalizzata ed efficace la comunicazione legata alla selezione del personale.

Il mondo del turismo e dell’ospitalità ha grandi difficoltà con il recruiting. Al di là delle specificità di settore, c’è un problema che riguarda le parole che mediano l’incontro tra domanda e offerta di lavoro?

Sì. Quello del linguaggio è sempre stato un tema fondamentale, adesso lo è di più perché è cambiato l’equilibrio tra domanda e offerta di lavoro. Prima alle aziende bastava che offrissero un lavoro, oggi non è più così. Nel leggere un annuncio o approcciarsi a qualsiasi contenuto aziendale le persone sono meno ingenue e molto più accorte nell’individuare le storture che possono nascere da una descrizione vaga del posto di lavoro, dalla presenza di elementi discriminatori o dalla “fuffa” che si nasconde dietro formule abusate, che hanno stancato. È per questo che le aziende hanno iniziato a porre più attenzione alle parole. Il tema del linguaggio diventa un problema quando un settore o un’azienda non riesce a trasferire con accuratezza, precisione ed empatia i propri contenuti.

A non trovarsi sono soprattutto i candidati più giovani. È una questione generazionale, anche dal punto di vista del linguaggio del lavoro?

Un tema generazionale certamente c’è. Dopo la pandemia, moltissime persone di ogni età hanno modificato il proprio sguardo sul lavoro rivedendo le priorità. Quello che caratterizza le generazioni più giovani è, da una parte, la ricerca di senso nel lavoro e, dall’altra, un allontanamento dalla visione del lavoro come unica fonte di realizzazione personale. Per questo, per le aziende è diventato fondamentale far percepire ai candidati cosa offrono, non solamente in termini di transazione economica, ma di partecipazione a un progetto che abbia un impatto anche extra business: il famoso purpose. Un elemento di appealing verso i più giovani è sapere, per esempio, che l’azienda non si limita a offrire un buono stipendio, ma tempo e autonomia di organizzazione, che è ciò che oggi cercano di più. Il punto, però, è che la comunicazione è sempre l’esito di scelte fatte a monte: non si può promettere ciò non si ha – e i più giovani non hanno alcun problema ad andarsene, anche durante il periodo di prova, se percepiscono che le cose non sono come erano state presentate. La comunicazione non può essere mai scollegata dall’esperienza che l’azienda propone alle persone, dalla cultura aziendale, dalle scelte concrete che si sono fatte internamente.

Scorrendo gli annunci di lavoro, le job description sembrano spesso tutte uguali.

È per l’uso di espressioni trite e ritrite come “leader di mercato”, “azienda giovane e dinamica” o “giovani talenti”. Da questo punto di vista, c’è anche un tema di inclusione. Scrivere di cercare “giovani talenti brillanti con la mente innovativa” è una comunicazione escludente e connotativa, da evitare: ci sarà una parte di popolazione lavorativa che non risponderà mai a quell’annuncio perché sentirà che non è a lei che l’azienda si sta rivolgendo. Serve, invece, consapevolezza nell’uso delle parole, che altrimenti rischiano di tradire le intenzioni dell’azienda – che magari nella comunicazione corporate si rappresenta in tutt’altro modo, come attenta e inclusiva.

Non si corre anche il rischio di svuotare di significato le parole? Penso a quelle che oggi vanno per la maggiore nella comunicazione aziendale e nel recruiting, come empatia, benessere, work-life balane, sostenibilità…

Le parole si svuotano di significato quando rimangono solo parole. La prova del nove della solidità di un purpose aziendale si ha quando a parlarne non è la comunicazione corporate o l’HR manager, ma le persone che in quella progettualità sono coinvolte, quando l’azienda riesce a sostituire i sostantivi benessere, sostenibilità, empatia con verbi che indicano le azioni concrete svolte.

Forse il problema è anche che si sono moltiplicati i canali attraverso i quali offrire e cercare lavoro e per le aziende non è facile adattare di volta in volta il proprio linguaggio. Ma è una questione di strumenti o di strategia?

Io credo che stiamo perdendo di vista i concetti di relazione e conversazione. Siamo ancora abituati a pensare ai canali come luoghi nei quali inserire gli annunci di lavoro quando c’è carenza di personale e bisogna assumere. Ma è un approccio che non funziona se fino a quel momento l’azienda non ha costruito una relazione e una presenza autentiche, credibili e costanti sui canali online e offline che ha deciso di presidiare. Si tratta di strutturare a monte una candidate experience e candidate journey attivando da prima dialogo e relazione. La pubblicazione degli annunci di lavoro o la partecipazione a una job fair vanno inserite all’interno di un pensiero strategico costante, che deve nutrirsi di interesse nei confronti delle persone e di disponibilità a stare nel dialogo.

In questo scenario, che ruolo gioca l’intelligenza artificiale?

In ambito HR l’AI ha già e avrà sempre più utilità nel facilitare alcuni processi, come il social recruiting, l’onboarding, la comunicazione interna e, soprattutto, i processi di apprendimento. Siamo in una fase nella quale ci sono tante opportunità, ma anche resistenze dovute ai timori che le persone hanno di essere valutate da un algoritmo, di vedere opacizzarsi alcuni processi decisionali, di dovere aggiornare le proprie competenze. Timori che interessano anche i responsabili HR, che pensavano di doversi occupare solamente di persone e invece dovranno occuparsi sempre più anche di tecnologia. Credo che la parola chiave che più rappresenta il nocciolo della questione sia “etica”: come useremo l’AI? Quanto aumenterà il divario cognitivo ed economico tra le persone? Al momento, ci sono più domande che risposte: quello che possiamo fare è imparare a coltivare autonomia interiore per continuare a discernere e scegliere perché l’AI rimanga uno strumento governato da noi e al nostro servizio.

Per approfondire: Come scrivere un’offerta di lavoro in maniera efficace

Chiarezza, accessibilità, concretezza: sono queste le caratteristiche che un’offerta di lavoro deve sempre avere. “La prima regola – spiega l’esperta Roberta Zantedeschi – è non dare mai per scontato il proprio interlocutore e pensare a contenuti e parole personalizzati. L’annuncio di lavoro per un barman, per esempio, deve essere diverso da quello per un event manager”. Da questo punto di vista, aiuta avere un approccio progettuale, ovvero “progettare il contenuto in base a chi dovrà leggerlo e solo successivamente scriverlo, revisionarlo e pubblicarlo, senza dimenticarsi di misurarne l’efficacia per apportare eventuali correttivi in futuro”.

È importante che l’offerta di lavoro sia chiara perché il testo venga compreso in maniera univoca: “Se l’annuncio è interpretabile – sottolinea Zantedeschi – è alto il rischio che arrivino candidature che non c’entrano niente”. Perché sia concreto, “via tutti i verbi nominalizzati, gli avverbi, gli aggettivi logori: descriviamo i ruoli, la realtà e l’esperienza che il candidato troverà rivolgendoci a lui in maniera diretta”.

Infine, è “importantissimo verificare che non ci siano elementi di discriminazione – conclude Zantedeschi – che l’annuncio, come tutto il processo di application, sia non solamente chiaro ma accessibile a tutti e non escludente”.

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