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La tempesta del lavoro: sfide e opportunità

Tra talent shortage, grandi dimissioni, malessere e reskilling il mondo del lavoro appare oggi come un mare in burrasca nel quale occorre imparare a navigare in modo diverso  

Tra talent shortage, grandi dimissioni, malessere e reskilling il mondo del lavoro appare oggi come un mare i

Di Silvia De Bernardin, 20 Maggio 2024

Un “mare in burrasca”, la cui traversata è ostacolata da onde, scogli e persino squali, che portano il nome di talent shortage, grandi dimissioni, malessere, reskilling. È questa l’immagine, già di per sé molto evocativa, scelta dall’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano per presentare i dati della survey annuale dedicata al mondo del lavoro e delle risorse umane. Una panoramica dalla quale – come raccontiamo in questo approfondimento dall’ultimo numero del magazine di “Job in Tourism” a emergere è soprattutto un dato: quello di un’insoddisfazione diffusa, che fa dire di essere “felice al lavoro” solamente al 5% delle persone. 

Il talent shortage

“Nonostante oggi si sia al minimo storico di disoccupazione, il talent shortage rimane un problema molto forte per le aziende: 1 su 2 prevede, infatti, una crescita di organico nel 2024, ma 9 su 10 non riescono ad assumere, rinunciando a crescere e fatturare”, ha premesso il Responsabile scientifico dell’Osservatorio, Mariano Corso, presentando nei giorni scorsi la survey nel corso di un convegno. “Il motivo – ha analizzato – è che non si trovano i candidati giusti, sia in termini di competenze tecniche, ma anche di soft skills adeguate. E anche quando si riescono a individuare, si assiste a un aumento tanto dei rifiuti di offerte di lavoro da parte dei candidati che di dimissioni a pochi mesi dall’assunzione”. 

Un’instabilità confermata anche dal dato sulle “grandi dimissioni”, fenomeno la cui onda lunga in Italia è ancora ben avvertibile, con il 42% dei lavoratori – quasi 1 su 2 – che nell’ultimo anno ha cambiato lavoro o pensa di farlo: un numero che cresce fino al 65% se si guarda alla sola Generazione Z. Un punto ancora più critico appare, tuttavia, quello relativo al cosiddetto great regreat, ovvero la percentuale in aumento di coloro che, a un anno dal cambio, si dicono ancora delusi. E se per i lavoratori più grandi la causa è soprattutto la fatica che il cambiamento porta con sé, per i più giovani si tratta di una disillusione dovuta al non aver trovato ciò che era stato prospettato. “È, dunque, evidente – ha sottolineato Corso – che si tratta di una questione che investe l’organizzazione del lavoro nella sua totalità più che di un problema delle singole aziende”.

Perché si cambia lavoro

Ma perché le persone decidono di cambiare lavoro? Quello che emerge dalla survey del Politecnico è che la ricerca di benessere fisico e psicologico rappresenta ormai la motivazione principale, per il 36% dei lavoratori, seguita a stretto giro dall’entità della retribuzione e dei benefit economici (35%) e dalle opportunità di carriera e crescita professionale (24%). 

Infelici al lavoro

In questo quadro non stupisce, quindi, il dato sulla cosiddetta “felicità al lavoro”, ovvero la percezione che rende le persone soddisfatte di ciò che fanno, pienamente ingaggiate e affezionate all’azienda, e che è propria di una quota minima di lavoratori italiani, appena il 5%, addirittura in calo rispetto al 7% dello scorso anno. 

Se si va a osservare meglio, si scoprono quali sono la motivazioni di un’infelicità lavorativa così diffusa. Ad esempio, la mancanza del giusto riconoscimento da parte delle aziende per il lavoro svolto, che interessa soprattutto le lavoratrici donne, così come la difficoltà nel raggiungere un equilibrio tra lavoro e vita personale (condizioni che, in positivo, riguardano appena il 16% e il 18% delle persone). O, ancora, le criticità relative all’inclusione, al benessere fisico e psicologico e alle opportunità di crescita professionale.

A livello generazionale, i giovani della Gen Z si confermano i più inquieti e sensibili al tema del benessere, ma anche alla coerenza tra i valori espressi e il comportamento delle aziende. I lavoratori dell’età di mezzo, Millennials e Gen X (quelli nati, cioè, tra gli anni Settanta e Novanta), invece, patiscono di più il malessere psico-fisico ma, al contempo, sono anche quelli meno propensi a cambiare lavoro, rimanendo così nella situazione di malessere. 

Il ruolo delle aziende

Un quadro certamente complesso rispetto al quale, tuttavia, le aziende hanno la possibilità di intervenire agendo su leve diverse. Ad esempio, quella del coinvolgimento delle persone “in iniziative di formazione e sensibilizzazione per migliorare l’impatto sociale e ambientale dei comportamenti che – ha evidenziato la ricercatrice dell’Osservatorio, Chiara Tamma – fanno schizzare il dato sulla felicità, proprio tra i più giovani, dal 5% al 24% perché agiscono sul purpose delle persone, dando al lavoro un nuovo significato”. Nella stessa direzione positiva vanno anche le azioni che favoriscono l’ascolto dei bisogni e rispondono alle esigenze di flessibilità organizzativa di spazi e tempi del lavoro. E, ancora, le attività di mappatura delle competenze, funzionali alla formazione e alla crescita professionale, avvertite anch’esse come fattori determinanti di un’esperienza lavorativa soddisfacente. 

Il supporto della tecnologia

Un contributo fondamentale può venire dalla tecnologia, soprattutto se usata in maniera integrata per migliorare l’esperienza dei dipendenti e liberare tempo prezioso, alleggerendo carichi di lavoro ritenuti eccessivi a favore di attività a più alto valore. Da questo punto di vista, è interessante notare come le persone guardino con interesse anche all’impiego dell’intelligenza artificiale. “Benché non manchino paure e barriere – sia da parte della aziende, che temono la mancanza di competenze, che da parte delle persone, più preoccupate dal rischio di indebolimento delle relazioni personali e dall’affidabilità degli algoritmi – il sentiment principale è positivo”, ha spiegato la Direttrice dell’Osservatorio, Martina Mauri. “Il 54% delle persone non è preoccupata per l’impiego dell’AI perché ritiene che permetterà di sviluppare nuove competenze, ma soprattutto di lavorare meglio e meno (a parità di stipendio) e, anzi, il 65% vorrebbe seguire corsi di formazione specifici su questo tema”.

Tuttavia – hanno concordato gli esperti di risorse umane e lavoro che hanno partecipato al convegno – la tecnologia rimane uno strumento: la ricostruzione di un rapporto “felice” con il lavoro ha a che vedere, piuttosto, con la cultura organizzativa nel suo complesso. “Soprattutto i lavoratori più giovani sono molto inquieti, si annoiano facilmente. Un’inquietudine – ha concluso Corso – che va incanalata in progettualità e modalità organizzative nuove, che possono rappresentare una grande opportunità per le aziende, sia in termini di produttività che di competitività”.

Talent shortage: la risposta del recruiting specializzato

Con l’88% delle aziende che oggi faticano a trovare personale, la risposta al cosiddetto talent shortage passa anche dalla capacità delle aziende di attuare una strategia formalizzata che permetta loro di acquisire le competenze di cui hanno bisogno. Un piano mirato messo a punto solamente dal 27% delle organizzazioni ma che – evidenzia la survey dell’Osservatorio del Politecnico – vede nel supporto di società specializzate per la ricerca di personale, anche per profili specifici, una delle attività più importanti. Seguono la revisione delle proposte economiche di salari e bonus, l’ampliamento della flessibilità organizzativa, l’avvio di iniziative per migliorare il proprio impatto sociale e, infine, l’utilizzo di metodologie innovative per migliorare l’employer branding. 

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