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La sfida del wellbeing tra mission aziendale e vita digitale

Dal benessere come leva di talent attraction ai consigli per un rapporto sano con il digitale, anche sul lavoro: l'analisi dell’esperto Alessio Carciofi

Dal benessere come leva di talent attraction ai consigli per un rapporto sano con il digitale, anche sul lavo

Di Job in Tourism, 26 Gennaio 2024

I corsi di yoga e gli sportelli di supporto psicologico. La flessibilità oraria e i bonus di fine anno maggiorati. Gli strumenti di conciliazione famiglia-lavoro e le proposte di formazione. Il mondo dell’impresa sembra aver capito la lezione impartita dalla pandemia e negli ultimi anni il cosiddetto corporate wellbeing ha assunto un’importanza sempre più rilevante, anche in termini di investimenti e messa in campo di servizi innovativi. Eppure, il malessere tra chi lavora continua a essere diffuso così come i casi di burnout, che non accennano a diminuire. In molti settori – ospitalità e ristorazione in testa – il personale addirittura non si trova. Cosa non sta funzionando? E che ruolo gioca in tutto questo il digitale che, invece che facilitare la vita, finisce spesso per sottrarre tempo alle giornate, sia al lavoro che a casa?

Ne parliamo, nel numero di questa settimana del magazine di “Job in Tourism” (che puoi leggere per intero qui), con Alessio Carciofi. Con una lunga gavetta giovanile da cameriere nei ristoranti degli hotel 5 stelle, è oggi professore universitario ed esperto di marketing e digital wellbeing e ha appena pubblicato per Il Sole 24 Ore il suo ultimo libro, “Wellbeing. Il futuro umano e digitale del benessere”.

Oggi le aziende investono sempre più in wellbeing, ma le persone continuano a “stare male” al lavoro. Come mai?

Le ricerche di settore ci dicono esattamente questo: aumentano gli investimenti, ma i tassi di burnout non scendono. Non è facile individuare le cause di questo paradosso. Per quello che vedo, uno dei temi è che il corporate wellbeing vive di residualità: progettuale, di budget, di strategia. Non è concepito come un asset produttivo. Si concretizza in attività sporadiche, non predittive.

Il famoso corso aziendale di yoga, dopo le 18.

Esattamente. Attività che rischiano di diventare un altro impegno, un’ulteriore fatica. Perché non sono correlate da un mindset, non hanno dietro un pensiero strategico. L’altro grande problema è che non abbiamo dei KPI: perché il benessere in azienda diventi un asset specifico, abbiamo bisogno di poterlo misurare. Da questo punto di vista, per le aziende molto grandi le cose un po’ cambieranno con le nuove normative appena entrate in vigore sulla rendicontazione dei parametri ESG.

Il corporate wellbeing può essere anche una leva di talent attraction e di retention?

Lo è. Se è vero, tra l’altro, che entro il 2030 il 30% della forza lavoro sarà costituito dalla Gen Z, per la quale il benessere è centrale, si capisce ancora di più perché questo è un tema sul quale le aziende non possono arrivare in ritardo.

A proposito di giovani, lei ha iniziato lavorando come cameriere negli hotel. Oggi il settore fatica a trovare personale: cosa sta succedendo?

Il tema della talent attraction è, oggi, il vero tema del mondo del lavoro – e nel turismo è particolarmente complesso. Credo che a questa perdita di attrattività abbia concorso una frammentazione di eventi, che hanno a che fare con il corporate wellbeing – gli orari, i turni, la stagionalità – ma anche con questioni più ampie. Il digitale sta rafforzando una cultura nella quale siamo immersi da tempo e che sta abituando il nostro cervello alle cose che danno gratificazioni istantanee. I ragazzi della Gen Z ci stanno facendo riflettere sul fatto che non tutto ruota intorno al lavoro, ma è anche vero che all’inizio di un percorso professionale non si può pretendere ciò che non è si è acquisito. Ha contribuito anche la grande spettacolarizzazione dei talent intorno a figure come quella degli chef. Per arrivare a livelli molto alti, però, devi lavorare tanto e sporcarti le mani: non è un caso che negli anni siano aumentare le iscrizioni alle scuole del turismo e che poi però, in tanti, quando scoprono cosa significa davvero lavorare in una cucina, decidano di non farlo. E poi c’è il tema politico dei sussidi, che sono fondamentali per alcune fasce, ma non per tutti.

Come se ne esce?

Non lo so (sorride, ndr)… Credo facendo capire, soprattutto ai ragazzi, che lavorare in questo settore è, prima di tutto, un’esperienza di vita. Quando mi chiedono come faccio a parlare in pubblico rispondo sempre che ho fatto le stagioni estive da cameriere nei 5 stelle: in sala, da un tavolo all’altro, a distanza di due metri, ho imparato a cambiare registro di comunicazione, a rapportarmi ogni volta a clienti sempre diversi.

Lato azienda, ci sono delle misure concrete che possono essere messe in campo?

Il vero tema è quello della leadership. Di fronte a difficoltà come quelle attuali non si può continuare a ragionare come cinque anni fa. È, prima di tutto, una questione di crescita professionale di chi gestisce i team. Significa creare un ambiente di lavoro con un’anima, dove le persone non si sentano come ingranaggi – cosa che richiede lo sviluppo di una cultura aziendale che valorizzi la connessione e lo scopo condiviso, considerando il benessere e la crescita personale dei dipendenti, oltre i soli obiettivi finanziari. Misure pratiche includono la promozione di una comunicazione aperta, la formazione empatica dei leader e la creazione di opportunità per i dipendenti di contribuire allo sviluppo della cultura aziendale. L’altro aspetto è la creazione di gruppi di lavoro coesi – cosa oggi sempre più difficile nel turismo sia per la stagionalità che per l’alto turn over – attraverso strumenti come la formazione, i progetti di team building, l’implementazione di sistemi di feedback e riconoscimento.

Un altro paradosso, quando si parla di wellbeing e turismo, è che proprio il benessere sta diventando un driver sempre più importante di scelta di viaggi e soggiorni. Poi, però, chi lavora nel settore spesso è il primo a non “stare bene”…

Ed è una cosa che chi viaggia per benessere sente subito. Le frustrazioni di chi lavora sono tangibilissime per il cliente. Si possono anche investire milioni di euro nella più bella SPA del mondo, ma se chi ci lavora non lo fa volentieri, l’esperienza del cliente sarà comunque negativa. Questo avviene nel contesto di una grande rivoluzione: il passaggio dalla fatica fisica a quella mentale. Soprattutto dopo la pandemia, la domanda legata al mental wellness e al transformative travel, ovvero il viaggio dal quale si torna cambiati, è aumentata tantissimo. È ancora più importante, quindi, che anche il personale viva i principi di relax e rigenerazione offerti ai clienti. Adottare misure per il wellbeing dei dipendenti, come orari flessibili e accesso a attività di benessere, migliora la soddisfazione del personale e l’esperienza del cliente: un approccio non solamente etico, quindi, ma anche strategico per migliorare la guest experience e rafforzare il brand.

Parlavamo di leadership. Chi si occupa di HR, invece, che ruolo gioco rispetto al corporate wellbeing?

Oggi le HR – quelle del mondo del turismo, in modo particolare – hanno un po’ il ruolo del vigile del fuoco, solo che, per spegnere gli incendi, invece degli idratanti, hanno a disposizione l’acqua delle borracce. Dal basso sono chiamati a far fronte ai tantissimi casi di burnout e al turn over mentre dall’alto viene chiesto loro di “inventarsi qualcosa” per rinforzare la talent attraction. Non caso, spesso i primi a essere in burnout sono proprio loro. Ma se è vero che oggi occuparsi di HR può comportare una grande frustrazione, è anche vero che ci sono tante realtà nelle quali questa non è più solamente una figura di collegamento tra basso e alto, ma un riferimento in grado di impostare una leadership basata su nuovi valori – che poi sono, in realtà, valori antichi. Anche qui abbiamo un paradosso: l’innovazione che si fa con cose note, come ascoltare e comunicare. Le persone, quando vengono ascoltate, si sentono riconosciute ed è a quel punto che emergono sia le criticità che le soluzioni. Nel settore turistico, caratterizzato da difficoltà strutturali e da una cultura lavorativa spesso incessante, può essere ancora più difficile assicurare che i lavoratori siano trattati come persone, con le proprie esigenze e aspirazioni. È proprio questa la grande sfida per le HR oggi: trovare l’equilibrio tra efficienza e umanità.

Il suo libro, che parla di benessere digitale, parte da una constatazione: viviamo immersi nella cultura della “scarsità di tempo” – una sensazione che chi lavora negli hotel o in cucina, tra l’altro, conosce bene da sempre. Dove possiamo ritrovarlo, questo “tempo che manca”?

“Non ho tempo” è il grande pensiero collettivo che si trasforma in quel mindset che ci fa continuamente rincorrere le cose, arrivando ad alterare anche parametri fisici come il respiro e il sonno. A questa cosa si ovvia solo fermandosi, che significa prendersi pause, staccare.

Perché facciamo così fatica a farlo?

“Staccare” è qualcosa che viviamo come un atto intimo di violenza perché c’è una società che ci dice che non possiamo fermarci. Ma qui entra in gioco l’onere dell’essere umano: se non ci fermiamo, non stiamo rispettando i nostri limiti e, lavorativamente, finiamo per fare solo cose ripetitive, quelle che sa fare anche l’AI – che da questo punto di vista è anche più produttiva di noi. Invece, dobbiamo immaginarci come un atleta professionista, che si allena, fa dei focus sulla gara e poi ha momenti di recupero.

Nel libro dà 21 consigli di “benessere digitale”. L’ultimo è: andare a buttare la pattumiera senza cellulare.

Se il future of work ci ha portato a sdoganare il dove e quando si lavora, è importante, però, che ci sia un bilanciamento rispetto al come lo si fa. La prima cosa è individuare i limiti: il digitale non li ha e, se non li stabiliamo noi, saremo sempre portati a superarli. Sul piano pratico, significa, per esempio, ridurre sensibilmente le videocall, evitare di mandare messaggi a chi lavora con noi il venerdì sera, non usare il telefono a tavola e a letto. Ed essere i “vigili” del nostro traffico digitale imparando a smistare le comunicazioni, come al pronto soccorso. Non tutto è da “codice rosso” perché, se è così, finisce che il codice rosso diventiamo noi.

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