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La ristorazione è più forte di qualsiasi crisi

Lo dice l'ultimo rapporto Fipe. Per la Federazione pubblici esercizi sì ai voucher, no ai take-away

Lo dice l'ultimo rapporto Fipe. Per la Federazione pubblici esercizi sì ai voucher, no ai take-away

Di Marco Beaqua, 26 Gennaio 2017

Fuoricasa sempre più protagonista delle abitudini f&b degli italiani. È quanto emerge dall’ultimo Rapporto ristorazione elaborato dalla Federazione italiana pubblici esercizi (Fipe) sull’andamento del settore nel 2016.
L’impatto della crisi sui consumi alimentari in casa (-12%, pari a una flessione di 18,4 miliardi di euro tra il 2007 e il 2015) non avrebbe infatti danneggiato il fuoricasa, comparto sostanzialmente capace di reggere l’impatto (-0,5% negli stessi anni, pari a -344 milioni di euro), con il risultato finale di un aumento del peso della ristorazione sul totale dei consumi alimentari, ormai al 35% delle spese f&b complessive delle famiglie. Nel 2016 sarebbero stati in particolare 39 milioni i nostri connazionali ad aver dichiarato di aver consumato pasti fuori casa (+1,1% rispetto all’anno precedente): il suggello di un’Italia in controtendenza rispetto al resto d’Europa, dove invece i consumi alimentari non domestici hanno registrato una significativa contrazione.
«I dati 2016», è il commento del presidente Fipe, Lino Enrico Stoppani. «confermano la ripresa dei consumi per il settore e la centralità del lavoro nell’f&b, dimostrata dal forte aumento dell’occupazione (ma le ore lavorate rimangono seppur di poco sotto il livello pre-crisi del 2007. Si vedano i grafici a pagina 7, ndr). Un incremento, quest’ultimo, favorito tra l’altro dallo strumento dei voucher: una risorsa vitale per un settore caratterizzato da stagionalità e picchi di lavoro imprevedibili; una scelta all’insegna della trasparenza che ha contribuito a far emergere il lavoro irregolare e a creare nuove opportunità occupazionali per i giovani, garantendo i contributi Inps e copertura assicurativa. Una guerra contro i voucher nella ristorazione è totalmente sbagliata, anche se condividiamo la necessità di alcuni correttivi per contrastare gli abusi».
Non mancano tuttavia, naturalmente, alcune criticità: «L’anno scorso», ha proseguito infatti Stoppani, «si è registrata un’elevata mortalità di imprese e un abbassamento della qualità, soprattutto a causa di un eccesso di offerta nel settore, dimostrata dall’elevato numero di esercizi take-away, per nulla legati alle tradizioni gastronomiche delle nostre città, che spesso mettono a rischio anche l’identità e l’attrattività dei nostri centri storici».
Interessante, da questo punto di vista, risulta la fotografia del comparto dei pubblici esercizi scattata dal rapporto (ma si vedano anche i dati Unioncamere riportati nel box a fianco, ndr): se da un lato, infatti, la rete nel 2016 si è ampliata grazie all’apertura di 20.184 nuove attività (+8,1% rispetto al 2008), dall’altro il livello qualitativo dell’offerta è calato soprattutto nei centri storici italiani, dove si è acuita la contrapposizione tra l’incremento di attività di ristorazione take-away (+41,6%) e la riduzione dei bar (-9,5%).
Il rapporto Fipe risponde infine alle critiche emerse nelle ultime settimane, durante le quali prodotti di punta del consumo alimentare fuori casa come il caffè al bar sono diventati i bersagli principali della denuncia di aumenti straordinari e ingiustificati: nel 2002 la rilevazione del prezzo della tazzina effettuata sui listini dei bar in diverse città campione forniva un prezzo medio di 1.533 lire, che convertite in moneta attuale corrispondono a 0,79 euro. Ebbene, le rivelazioni dell’Osservatorio prezzi a novembre 2016 sulle stesse città indicavano un valore medio di 0,98 euro, per un incremento tutto sommato contenuto al 24%.

La Filcams-Cgil contro i buoni lavoro

Una diffusione abnorme, che in settori strategici come il turismo e il commercio sta soppiantando i contratti di lavoro dipendente, come il tempo determinato, l’apprendistato, e la somministrazione. È quanto denuncia la Filcams-Cgil sul tema voucher, con il clima che si fa sempre più incandescente a causa dell’avvicinarsi del referendum abrogativo in previsione per la prossima primavera.
«Molti sostengono che i voucher siano una soluzione al lavoro nero, ma i dati dicono che a trasformarsi in voucher non è stato il lavoro nero, ma quello dipendente, in particolare laddove i datori di lavoro tendono a minimizzarne il costo, come nei servizi», spiega la segretaria generale Filcams Cgil, Maria Grazia Gabrielli. «Non parlano ai nostri settori: paradossalmente alcuni autorevoli esponenti della politica e dell’economia continuano a pensare che i voucher possano essere utilizzati per retribuire lavoratori degli alberghi, delle agenzie di viaggio, dei tour operator, degli ipermercati, come se il terziario e i servizi rappresentassero un aspetto minore del mercato del lavoro e del nostro tessuto produttivo. Le forme contrattuali per dare risposte alle esigenze di flessibilità delle aziende esistono sia di legge, sia nei contratti collettivi nazionali. I voucher si sono rivelati solo un escamotage per fare cassa a discapito dei diritti e della retribuzione di chi lavora, e vanno pertanto aboliti».

Crescono i locali f&b in Italia ma molti chiudono dopo poco tempo

Ristoranti e bar spopolano tra le strade italiane ma non sempre aprire un locale è sinonimo di successo assicurato. È quanto emerge da un recente rapporto curato da Unioncamere – Infocamere basato sul Registro delle imprese italiane. Secondo i dati raccolti, in particolare, in tutta la Penisola, tra il 31 dicembre 2011 e il 31 dicembre 2015, il numero di outlet f&b sarebbe aumentato di circa il 10%. Alla fine dello scorso anno si contavano infatti 367 mila attività, tra ristoranti (197 mila imprese) e caffetterie (170 mila), sparse sul territorio nazionale, in crescita di oltre 31 mila unità rispetto a quattro anni prima. Ma se sono sempre di più gli imprenditori pronti a scommettere sui piaceri della cucina e di una buona tazza di caffè, solo in pochi riescono a tenere in piedi la propria attività a lungo. Delle imprese nate nel 2011, ben tre su quattro hanno infatti abbassato la saracinesca entro la fine del 2015 e oltre il 45% non è riuscita a resistere al proprio terzo anno di vita. Tuttavia non è così dappertutto: in alcune grandi città italiane i numeri migliorano sensibilmente. A Milano, Napoli, Roma e Firenze, per esempio, i livelli di mortalità delle attività iscritte nel 2011 sono inferiori alla media nazionale, sia per i bar, sia per le imprese di ristorazione. In quest’ultimo caso, i locali più “resistenti” si trovano nel capoluogo toscano, dove il 57% di questi risulta ancora sul mercato. I bar sembrano invece avere vita più facile soprattutto nella capitale d’Italia, con il 49% degli esercizi ancora esistenti.

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