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La reception: un biglietto da visita

Una libera riflessione sul valore senza tempo della tradizione dell'accoglienza italiana

Una libera riflessione sul valore senza tempo della tradizione dell'accoglienza italiana

Di Roberto Crisafulli, 21 Marzo 2013

Lo stile, l’educazione e il linguaggio del personale alla reception non può essere del tipo reality show: la reception è il primo biglietto da visita per qualsiasi albergo; quando entriamo in un hotel rinomato, magari disegnato da un archistar con una bellissima spa, ci aspettiamo un po’ di classe da chi ci accoglie al front office.
L’altra mattina, invece, sono stato in un albergo famoso e mi sono stupito di essere accolto da una persona che sembrava non aver dormito, con i capelli unti di grasso e una divisa molto casual con scarpe da tennis: un’immagine decisamente in contrasto con lo stile, l’immagine e l’atmosfera di un hotel di design con una bellissima beauty farm.
Mentre aspettavo il mio turno pensando a tutto ciò, il cliente che mi precedeva, un tipo molto garbato e di classe, veniva liquidato dalla receptionist con un’ espressione dialettale del tipo «Vabbò» e, cosa molto spiacevole, con un saluto finale che tuonava come un: «Finalmente mi sono liberata!».
So per certo che l’albergo di cui parlo si è avvalso della collaborazione di tanti consulenti che, convinti di essere innovativi, hanno pensato di castigare il personale con delle divise sportive, nella migliore delle ipotesi, mortificanti in quella peggiore: come nel caso, per esempio, dell’impiegata costretta a indossare una gonna troppo mini e certamente non comoda, per stare seduta a una sorta di scrivania-vetrina per circa otto ore.
Negli ultimi anni vedo spesso demonizzare il classico bancone del ricevimento. Capisco il voler essere originali, ma se poi l’alternativa a un tradizionale front desk è un modesto podio, magari posto a caso tra una porta aperta del back office e un pilastro della hall, sembra proprio che, dopo tanta cura nella progettazione, ci si sia ricordati solo all’apertura che l’architetto non aveva previsto alcuna reception.
Nel caso che sto raccontando, in particolare, hanno prima realizzato un piccolo podio al posto del banco ricevimento, per poi naturalmente rendersi conto, dopo un po’ di tempo, che non bastava. Ecco allora l’aggiunta di una scrivania-vetrina, priva di qualsiasi simmetria con il podio e con il design complessivo della struttura. La signorina che lavora proprio alla scrivania viene inoltre castigata con una scomoda minigonna, decisamente troppo corta anche per una fotomodella, e per di più esposta alla più ampia visuale da tutte le angolazioni in cui si trovano i divani della hall.
Vedendo il personale così abbigliato non mi è stato possibile non ricordare le parole di un mio professore di psicologia del turismo: «È vero che l’abito non fa il monaco, ma pensate al monaco senza l’abito». Il senso della frase del mio professore, e l’importanza dell’abito giusto, li vivo tutte quelle volte che, quando indosso giacca e cravatta, qualsiasi ragazzino si rivolge a me con il lei, mentre il carabiniere al posto di blocco mi riserva un perfetto saluto militare. E fa niente se la volta precedente, quando ero vestito con la tuta da ginnastica per andare in palestra, lo stesso carabiniere non mi aveva neppure degnato di un buongiorno.
Da alcuni anni si parla tanto di problem solving. Tutto bene: ma pensate davvero che certe cadute di stile, il linguaggio da taverna e l’abbigliamento da circo rendano le persone autorevoli, aiutino nella comunicazione e diano una buona immagine? Io credo che la classe e la buona educazione non passeranno mai di moda: è arrivata, insomma, l’ora di rispolverare e tirar fuori il savoir faire e quello stile un po’ British che i nostri padri e i nostri nonni conoscevano benissimo; quelle buone maniere, in altre parole, della nostra tradizione, che ormai vediamo solo nelle immagini in bianco e nero, ma di cui corre oggi l’obbligo di ricordarsi anche nelle nostre immagini a colori.
La bellezza di lavorare in un albergo è la grande fortuna di poter incontrare persone e culture diverse che arricchiscono la nostra personalità. I miei alunni migliori sono stati coloro che hanno imparato a specchiarsi in ogni cliente, ad assorbire le positività di ogni nuova conoscenza. Quando si capisce la ricchezza che un nuovo incontro può offrire, ogni passo avanti è infatti una conquista e un continuo piacere il lavorare in un ambiente internazionale come quello che un albergo può offrire: crocevia di culture e lingue di ogni continente.
Mi piacerebbe che tutti, quelli che lavorano a contatto con il pubblico, si rendessero conto della grande fortuna che hanno, pensando a tutti quei mestieri in cui si è soli con macchine e oggetti, senza vedere nessun essere umano al di fuori del proprio collega. Trenta anni fa, avevo appena 14 anni quando ho fatto una scelta di amore. E oggi posso dire ad alta voce che la mia professione è la più bella del mondo e je ne regrette rien.

Chi è Roberto Crisafulli

Dopo alcuni anni di esperienze all’estero, in Svizzera e in Inghilterra, presso strutture Swiss Ambassador e InterContinental, Roberto Crisafulli torna in Italia nel 1992, dove lavora a lungo nel front office di vari alberghi siciliani e romagnoli. Dal 2007 al 2008 è quindi vicedirettore di un Relais & Chateaux dell’entroterra riminese per poi passare, per cessata attività, al Bellevue di Milano Marittima in qualità di capo ricevimento. Dal 2009 torna quindi alla struttura in provincia di Rimini, ancora come vicedirettore della nuova gestione. Appassionato di hôtellerie, alta cucina, banqueting, comunicazione e web-marketing, esperto nella formazione del personale e coordinamento dei reparti, Crisafulli è oggi consulente tecnico in attività alberghiere.

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