La crisi ha messo e sta mettendo in difficoltà molte imprese a livello globale. Ma anche per quelle più resilienti, o meglio per i loro lavoratori, ci sono delle ricadute pesantemente negative. Soprattutto a causa dell’incremento dei livelli di stress percepiti. Una ricerca della società americana di psicologia del lavoro, ComPsych, rivela, in particolare, una crescita sensibile del cosiddetto fenomeno del presenzialisimo: il 22% dei lavoratori interpellati, su un campione di circa 1.880 dipendenti Usa, ha infatti dichiarato di considerare come priorità assoluta, e fonte di stress principale, la propria presenza fisica sul lavoro (+3% rispetto all’indagine condotta nel 2011). E ciò a discapito di altri obiettivi sicuramente più importanti, a livello personale e aziendale, come il rispetto delle proprie responsabilità e il miglioramento delle proprie performance. Tali evidenze si riferiscono all’universo a stelle e strisce, ma non è affatto difficile immaginare di traslarle anche in contesti più vicini a noi, come quello italiano. Ecco allora che le parole di Richard Chaifetz, presidente e ceo di CompPsych, possono davvero assumere una valenza universale: «Dato che gli imprenditori continuano a mostrare una certa prudenza nelle loro politiche di reclutamento, anche tra coloro che hanno mantenuto il proprio impiego si cominciano a registrare prolungati segnali di stress. E ciò può generare una riduzione complessiva delle performance. I datori di lavoro, perciò, dovrebbero comunicare chiaramente ai collaboratori le proprie aspettative rispetto agli incarichi assegnati, supportando inoltre i dipendenti con risorse atte a ridurre lo stress e a migliorare il bilanciamento dell’equilibrio vita-lavoro».
Le principali evidenze della ricerca
Il 36% dei dipendenti perde almeno un’ora di lavoro al giorno a causa del fattore stress
Lo stress e la spesso correlata difficoltà a gestire le relazioni interpersonali rappresentano le motivazioni principali di assenza dal lavoro. Superano, infatti, in tale contesto, persino ragioni tradizionali come le malattie e la cura di parenti in difficoltà.
Tra le priorità assolute dei lavoratori, rispettare le proprie responsabilità resta l’obiettivo principale per il 59% del campione interpellato, pur calando di un punto percentuale rispetto all’anno scorso. Il presenzialismo, con il 22% delle citazioni, sale invece al secondo posto (+3%), scavalcando il miglioramento delle proprie performance, fermo al 19% (-2%).
Marriott e Accor nella top 25 delle aziende dove si sta meglio
Con i livelli di stress sul lavoro in ascesa un po’ ovunque, capire quali aziende si rivelino più attente alle esigenze personali e professionali dei propri dipendenti diventa oggi sempre più importante. Anche perché garantire un buon ambiente di lavoro fa bene pure ai conti in bottom line. Lo dimostrano i risultati delle aziende comprese nella top 25 delle multinazionali dove si sta meglio, elaborata a livello globale dall’istituto specializzato Great Place to Work. Le imprese incluse in tale elenco hanno infatti aumentato, nel corso del 2012, i loro ricavi del 9%, creando inoltre complessivamente 120 mila nuovi posti di lavoro. L’indiscusso appeal di tali compagnie le rende inoltre in grado di attirare e trattenere i talenti migliori, tanto è vero che, in media, ricevono una quantità di candidature pari a 11 volte il loro numero di impiegati, mentre i tassi di turnover sono decisamente più bassi che altrove. Per quest’anno, in particolare, la classifica Great Place to Work è dominata dalle società It, che occupano ben quattro delle prime cinque posizioni, con Sas Institute sul gradino più alto del podio, Google al secondo posto, NetApp al terzo e Microsoft al quinto. Nella top 25 c’è tuttavia spazio anche per la ristorazione e l’industria dell’ospitalità: Marriott conquista infatti la sesta piazza, mentre Accor si posiziona al diciannovesimo posto e McDonald’s al ventesimo.
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