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In cucina la curiosità è tutto

Qualche volta bisogna saper anche provare a provocare i clienti

Qualche volta bisogna saper anche provare a provocare i clienti

Di Massimiliano Sarti, 29 Luglio 2011

Nato a Parigi da madre francese e padre italiano, Stefano Pace, da cinque mesi chef de L’Orangerie del Grand Hotel Terme di Sirmione, ha sempre vissuto questa sua duplice identità come un dilemma: «Da figlio di un immigrato veronese, Oltralpe sono sempre stato visto come italiano. Nella penisola, invece, mi trovo spesso a essere considerato francese, con tutto ciò che ne consegue, visto soprattutto che la cucina transalpina è ritenuta generalmente un po’ snob».
Domanda. La sua è però una doppia anima importante per uno chef.
Risposta. Sicuramente ha condizionato molto il mio stile. Ma l’ho sempre considerata come un grande vantaggio, perché così ho potuto aggiungere alla tecnica francese il gusto italiano per i sapori e i profumi. Ed è quello che sto applicando anche qui all’Orangerie, dove l’idea è quella di offrire piatti ispirati alla cucina tradizionale della zona, ma rivisitati in chiave wellness.
D. Come si armonizzano nel piatto le esigenze del benessere e quelle del gusto?
R. Parte tutto dalla materia prima. Benessere e leggerezza si basano sul prodotto. E anche il pane o un formaggio, se fatti bene, sono sempre leggeri e genuini di per sé.
D. A questo proposito, quali tecniche di cottura preferisce utilizzare?
R. All’Orangerie cerchiamo di cuocere tutto a bassa temperatura, per preservare gusto, colore e vitamine di ogni alimento. Io, in particolare, mi servo molto della cottura sottovuoto, che consente di salvare profumi e colori ed esaltare al massimo i prodotti di stagione, raggiungendo livelli incredibili di sapore. È questo, inoltre, un metodo che garantisce anche una certa razionalizzazione dei costi: la cottura non è lunghissima e le perdite di peso delle pietanze si riducono, perché i cibi si restringono di meno. Non solo: così è pure possibile programmare meglio i tempi di lavoro. Possiamo, infine, sfruttare appieno le stagioni, comprando grandi quantità di prodotti: sottovuoto, infatti, le fragranze si mantengono perfettamente.
D. Tra i vostri obiettivi all’Orangerie c’è anche quello di puntare sui prodotti locali. Qual è la sua personale interpretazione dei sapori del Garda?
R. Per me rappresentano una novità. All’inizio ho dovuto fare una grande ricerca sulle tradizioni e su prodotti come i pesci del lago, l’olio e i formaggi delle valli. Fortunatamente qui si riescono a trovare materie prime uniche senza fare troppa strada. Devo però ringraziare anche i miei fornitori: le loro spiegazioni e i loro consigli mi hanno aiutato a capire meglio il territorio. Credo, infatti, che sia molto importante costruire un buon rapporto con la gente locale per poter imparare le tradizioni e i gusti di una regione.
D. Molti chef contemporanei tendono a considerare la ristorazione come un’esperienza sensoriale totale. Qual è il suo approccio in materia?
R. Sicuramente anche l’occhio vuole la sua parte. In un piatto, in particolare, è fondamentale il rapporto tra texture, gusti e profumi. È molto importante, inoltre, saper abbinare tra loro elementi contrastanti, come il dolce e l’acido, il morbido e il croccante: perché, a volte, bisogna provare a provocare i clienti.
D. Come è nata la sua passione per la cucina?
R. So di poter sembrare retorico, ma la passione per il cibo e la cucina sono sempre state presenti nella mia famiglia. Da piccolo andavo al mercato con mia madre e mia nonna e restavo affascinato: dai colori e dai discorsi del pescivendolo, del macellaio, del fruttivendolo. Ricordo pure la sensazione esaltante del profumo delle panetterie. La passione poi è nata quasi per caso, iniziando a fare l’apprendista, e anche grazie a degli ottimi maestri che sono riusciti a stimolarmi.
D. Da dove trae l´ispirazione per le sue creazioni?
R. Un po’ da tutto: viaggiando, leggendo, mangiando. Mi piace molto parlare con i miei colleghi, confrontarmi con loro. Anche una critica, poi, se ben strutturata, serve a migliorare la propria attività.
D. Ogni professione ha il suo rovescio della medaglia: quali sono le tre cose che detesta di più in cucina?
R. Innanzitutto non sopporto la mancanza di ascolto e di rispetto. Provengo da una scuola molto rigorosa e mi stupisco di chi non si ferma a chiedere, non accetta i consigli, si sente già arrivato. Ma non mi piace neppure la mancanza di puntualità. Penso poi che la cipolla in cucina sia indispensabile, ma odio sentirne il profumo: dico sempre che bisogna farla rosolare, ma non farla sobbollire, per evitare che il suo sapore rimanga troppo intenso.
D. E i tre aspetti del suo lavoro che invece la appassionano di più?
R. Amo il dialogo e il confronto con i miei colleghi: ho, per esempio, una fortissima passione per i dolci e adoro parlae con i pasticceri di ricette e della loro realizzazione. Ma soprattutto mi piace mangiare, mi interessano tutti i piatti e adoro la cucina. La curiosità, infatti, è fondamentale: se perdi quella, perdi tutto.

La sua storia

Stefano Pace nasce il 20 febbraio 1962 a Parigi, da padre veronese e madre francese. Fin dalla più tenera età, coltiva il sogno di diventare chef mostrando uno spiccato interesse per la cucina. A soli 14 anni frequenta il primo corso di cucina con apprendistato presso il ristorante tradizionale francese Porte Des Lilas con Jean Pierre Coucoul. Seguono un periodo di lavoro in vari ristoranti parigini tra cui La Barriere De Clichy di Roger Verger (2 stelle Michelin) e, negli anni 1980, il primo viaggio in Italia per apprendere i segreti della nostra cucina. Decide quindi di trasferirsi nel veronese, terra natia del padre, dove perfeziona la propria esperienza lavorando come primo chef presso alcuni ristoranti della zona. Nel 1993 realizza finalmente il suo grande sogno: inaugura insieme alla moglie Paola Dal Cero il ristorante La Terrazza, a Montecchia di Crosara in provincia di Verona.
Nel 1998 arriva anche la stella Michelin. Da febbraio 2011 inizia, infine, una nuova fase del suo percorso professionale diventando lo chef de L’Orangerie.

Bigoli al torchio con sarde di lago sotto sale, petali di pomodori canditi e fiore di capperi

Ingredienti per 4 persone
Per i bigoli: farina 00 g. 150, farina di grano duro rimacinata g. 50, due uova. Per la salsa: quattro sarde sotto sale, due grossi pomodori, mezzo mazzetto di prezzemolo, capperi g. 20, uno spicchio di aglio in camicia, olio extra vergine di oliva cl. 5.
Preparazione
Dopo aver confezionato i bigoli (si preparano con il torchio; se questo non fosse disponibile, si può usare anche una trafila per spaghetti grossi, oppure eventualmente comprarli già fatti), eliminare il sale dalle sarde passandole sotto l´acqua corrente. Squamarle ed eliminare la lisca centrale. Sbollentare appena i pomodori. Privarli della pelle e tagliarli in quattro parti eliminando i semi. Adagiare i petali di pomodoro su una placca da forno rivestita con carta d´alluminio leggermente unta d´olio. Spolverizzare i petali con due cucchiai di zucchero a velo e cuocere a 90 gradi per 30 minuti ogni lato. Lessare i bigoli in abbondante acqua salata per 8 minuti. Nel frattempo, versare in una padella l´olio d´oliva con lo spicchio d´aglio e sciogliervi le sarde aggiungendo, se necessario, mezzo bicchiere d´acqua. Infine, amalgamare 4 petali canditi tagliati a listarelle e i capperi. Scolare la pasta e saltarla nella padella del condimento con il prezzemolo precedentemente sfogliato, lavato e tritato. Togliere l´aglio e distribuire i bigoli al centro di ogni piatto guarnendo con un petalo di pomodoro candito e fior di cappero. Irrorare con olio extra vergine d´oliva del Garda e servire ben caldo.

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