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Il nuovo umanesimo delle HR

Filosofia e poesia al servizio delle risorse umane: la proposta dell’esperta Chiara Bisconti per ripensare in chiave agile l’organizzazione aziendale, anche in hotel

Filosofia e poesia al servizio delle risorse umane: la proposta dell’esperta Chiara Bisconti per ripensare

Di Silvia De Bernardin, 1 Dicembre 2022

E se la risposta ai cambiamenti – e alle difficoltà – che il mondo delle risorse umane sta affrontando nel post pandemia si trovasse nella possibilità per le imprese di fare propria una nuova visione dell’organizzazione aziendale di tipo “umanistico”? E se quel “benessere” sul posto di lavoro del quale oggi tanto si parla avesse a che fare più che con i servizi e la tecnologia, con la filosofia, la psicologia e, perché no, anche con la poesia? È la nuova via che ci suggerisce Chiara Bisconti. Ex manager di multinazionale, oggi consulente e grande esperta di risorse umane, in passato assessore per il Benessere e la Qualità della vita del Comune di Milano, è stata – molto prima di qualunque lockdown – una delle pioniere del lavoro agile in Italia, al quale ha dedicato recentemente il suo libro Smart, agili, felici. E in questa intervista ci spiega come un nuovo modo “agile” di pensare l’organizzazione del lavoro potrebbe aprire la strada a modelli inediti, anche nel settore alberghiero.

Domanda. Oggi c’è una rinnovata attenzione al tema del “benessere al lavoro”. Ma cosa significa questo concetto e, soprattutto, come si concretizza di fatto?
Risposta. È un interesse nuovo, e una sensazione comune, che deriva da una serie di spinte che stanno arrivando nel mondo del lavoro come conseguenza del periodo pandemico: sta emergendo che siamo cambiati profondamente, anche molto più di quello che riusciamo a percepire. Ecco, le riflessioni che ci portiamo dentro, o che come gestori di persone siamo chiamati ad affrontare per rispondere a questi nuovi bisogni, vengono messi sotto questa etichetta comune: c’è bisogno di occuparsi di benessere. In realtà, nelle aziende se ne parla da tempo, forse però è arrivato il momento di rispondere con categorie mentali nuove.

D. Ovvero?
R. Anni fa, quando si parlava di benessere delle persone al lavoro, le risposte erano legate all’offerta di servizi. Ma a bisogni nuovi si risponde introducendo categorie di pensiero nuove, che non abbiamo ancora esplorato abbastanza. Mi colpisce come nelle organizzazioni aziendali, sia piccole che grandi, l’attenzione alle persone venga ancora portata avanti evitando di mettere in gioco le emozioni, di affrontare le dinamiche reali sulle quali si basa l’interazione tra individui, che sono fatte di elementi di natura psicologica. Manca ancora, nelle aziende, tutto un aspetto che possiamo definire “umanistico”. Con la pandemia sono nati interrogativi nuovi, intimamente legati alle scelte di vita delle persone – e quindi alle emozioni sulle quali si costruiscono quelle scelte – che però le aziende non hanno ancora la capacità di affrontare.

D. A proposito di umanesimo, lei recentemente ha detto che bisognerebbe far entrare nelle aziende la filosofia, la psicologia, la sociologia, e anche la poesia. Cosa significa?
R. Che non si può rispondere a bisogni nuovi con gli occhi di sempre. La domanda vera che le aziende dovrebbero farsi in questo momento è: come stanno le persone dal punto di vista esistenziale? E per parlare di bisogni esistenziali, bisogna avere dimestichezza con la filosofia, con la psicologia, e anche con la poesia, che è un modo per tirare fuori le emozioni.

D. Proviamo a fare un esempio?
R. Quando c’è una promozione, che è un atto che ha dei risvolti emozionali molto forti, non si parla mai né dei sentimenti di gioia di chi la promozione la riceve né di chi la promozione la osserva e la subisce, magari provando dispiacere, rabbia o senso di inadeguatezza. Questa parte “sentimentale” è sempre omessa, invece dovremmo ricordarci che le organizzazioni sono prima di tutto insiemi di persone. E oggi le persone hanno messo al centro, con più forza, la preziosità del proprio tempo e della propria vita. La pandemia ci ha fatto capire che non si può risolvere tutto sul piano della mera organizzazione perché manca un pezzo.

D. Lei è stata una delle pioniere del lavoro agile in Italia quando era ancora un miraggio. Oggi la pandemia lo ha sdoganato, ma in un settore come l’ospitalità – che richiede presenza per molte funzioni operative – è qualcosa di ancora non definito. Eppure la flessibilità organizzativa è uno dei requisiti più ambiti da chi cerca lavoro, anche in questo ambito. Come far combaciare le due cose?
R. Quello dell’ospitalità è un settore che, per sua natura, non può beneficiare molto della grandissima spinta vitale che viene dal lavoro agile, che è uno dei pilastri di questo nuovo umanesimo perché rappresenta un allentamento di costrizioni e un riconoscimento di libertà, autonomia e fiducia che hanno molto a che fare con l’occuparsi della parte vitale delle persone. Ma anche lì dove è richiesta la presenza si può mutuare molto dal lavoro agile, che non significa solo lavorare da remoto, ma soprattutto saper organizzare il lavoro in modo da tenere conto anche delle esigenze individuali. Ad esempio, ci si può chiedere se si stanno organizzando i turni esclusivamente in funzione delle necessità dell’albergo o anche dei bisogni delle persone o interrogarsi su che tipo di autonomia si concede loro quando si definiscono i momenti nei quali ha senso trovarsi in presenza. Quello che serve è più un “tailor made” della presenza: non c’è una ricetta valida per tutti, quello che si può fare è domandare direttamente alle persone coinvolte nelle singole funzioni come possono organizzare meglio il proprio lavoro. I fatti ci dicono che, quando si chiede direttamente alle persone, si trovano soluzioni, anche impensate, che funzionano. E poi si potrebbe lavorare sulla stagionalità.

D. In che modo?
R. Forse, in un momento come questo, potrebbe avere senso per la aziende alberghiere provare a fare delle partnership con imprese di altri settori che hanno stagionalità e flussi di lavoro inversi ai propri. Sarebbe un modo nuovo, per esempio, per sfruttare la voglia, che hanno soprattutto i giovani, di fare più cose diverse, costruendo insieme una flessibilità e dei contratti di lavoro che si possano parlare, permettendo alle persone di lavorare per un periodo dell’anno nel turismo e nei restanti mesi in altre realtà, integrando competenze ed esperienze. È chiaro che si tratta di prospettive che richiedono poi interventi di tipo legislativo, ma sappiamo che la legislazione si muove lenta e che certi cambiamenti partono prima dalle partnership tra privati.

D. Ecco, i giovani. Sono soprattutto loro a “scalpitare”.
R. Hanno occhi nuovi e bisogni di vita nuovi. Sono quelli che con la pandemia hanno risettato maggiormente il proprio modo di vivere, che hanno meno legami con quello che era prima, sono più audaci e hanno più tempo davanti. Non è un caso che siano i primi a mettere in atto nuovi comportamenti. Hanno un senso della vita completamente staccato dal modello di lavoro che inseguivamo noi. Bisogna ascoltarli e provare ad adeguare le organizzazioni aziendali ai nuovi bisogni che esprimono. Forse, la flessibilità propria del lavoro agile, traslata a delle partnership tra datori di lavoro diversi, ma che ti seguono nel corso degli anni, può essere una risposta, anche nel settore alberghiero.

D. I più giovani sono anche i più attenti a un altro dei temi oggi centrali per le aziende: la sostenibilità. Che legame c’è con la ricerca di “benessere” al lavoro della quale stiamo parlando?
R. Oggi c’è una percezione della sostenibilità molto più individuale che in passato, legata alla maggior consapevolezza degli impatti che hanno le azioni di ciascuno di noi. Davanti a questo, ci sono le aziende che questa cosa l’hanno capita, e permettono alle persone di essere protagoniste delle proprie scelte, e quelle che non l’hanno capita e che rischiano così di tradire quel bisogno che oggi molti hanno di mettere in atto comportamenti sostenibili.

Lavorare agile per essere felici
Lavorare in modo “felice” si può. Una modalità – spiega Chiara Bisconti nel suo libro Smart, agili, felici. Il nuovo modo di lavorare che libera la vita – che passa dal “lavoro agile”, quello che più abitualmente chiamiamo ormai “smart working”. Qualcosa di diverso e di più radicale, però, del semplice “lavoro da casa”, ovvero la possibilità di organizzare il proprio lavoro, di concerto con l’azienda, con modalità spazio-temporali diverse rispetto a quelle che ci vogliono ogni giorno nel solito luogo per 8 ore consecutive, valido anche per quei settori occupazionali più legati alla presenza fisica. Ma perché agile può diventare sinonimo di felice? “La più grande felicità che sento e che vedo espressa da chi fa lavoro agile – spiega Bisconti – è essere riconosciuti e visti finalmente come persone adulte, non più come risorse-oggetto, ma come soggetti responsabili che esprimono dei bisogni, che non sono contrari agli interessi dell’azienda ma solamente riconducibili a un’organizzazione diversa da sviluppare insieme. Negli anni – racconta ancora la consulente HR – ho toccato con mano grandissime infelicità, che tuttora esistono nelle aziende: quelle di chi non è capito e accolto nei propri bisogni, non riconosciuto nelle proprie potenzialità”. Poter concordare con la propria azienda quando e dove lavorare, rappresenta, invece, “un patto di fiducia profondo, che porta le persone a rimanere fedeli all’azienda, a sentirsi parte viva di quell’organizzazione”.

Dai “capi” ai “maestri di saperi”, come ripensare le gerarchie aziendali
I nuovi bisogni espressi dalle persone rispetto al lavoro chiamano in causa chiunque si trovi alla guida di un team, sollecitato a ripensare il proprio ruolo e le proprie competenze, anche al di fuori delle gerarchie tradizionalmente intese. “Chi si trova a gestire delle persone dovrebbe vedersi in primo luogo proprio come tale, e quindi avere come prima competenza proprio la conoscenza dell’animo umano. Spesso – analizza Bisconti – nelle aziende c’è grande aridità da questo punto di vista e, invece, un aspetto prioritario per chiunque sia a capo di un team dovrebbe essere dedicare parte del proprio tempo a costruirsi una competenza umanistica che gli permetta di capire e gestire il fatto che persone sono fatte di emozioni, e sono complesse. In parallelo – aggiunge l’esperta di risorse umane – andrebbe fatto un lavoro sull’organizzazione: la gerarchia fine a sé stessa, nella quale il capo fa il bello e il cattivo tempo, non ha più senso di esistere. Piuttosto, sono interessanti modelli nei quali, più che il manager, ci sono gruppi di persone che condividono responsabilità e obiettivi o nei quali il ‘capo’ è davvero un ‘maestro di sapere’, capace di nutrirti professionalmente e personalmente”.

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