È il piatto della tradizione enogastronomica italiana forse più celebre al mondo. Come una famosa rivista di enigmistica, vanta un’infinità di imitazioni, alcune felici altre meno, ma nessuno ne ha mai messo in dubbio le origini, l’ispirazione tutta mediterranea e soprattutto italiana. Eppure, ancora oggi, si tratta di un piatto spesso sottovalutato: una ricetta povera, destinata a pasti veloci per palati non eccessivamente pretenziosi. «Spesso le pizzerie partecipano a una sorta di corsa al ribasso, utilizzando materie prime di non eccelsa qualità per mantenere i prezzi ridotti. Non c’è nulla di più sbagliato. La pizza, se preparata con la dovuta attenzione, può invece diventare un veicolo, semplice e immediato ma proprio per questo molto efficace, della nostra identità e delle nostre peculiarità territoriali», ha raccontato, all’ultima edizione di Identità Golose, Gennaro Esposito, lo chef stellato Michelin della Torre del Saracino di Vico Equense.
Perché di pizze non ne esiste una sola, ma tante quante sono i pizzaioli che le preparano. I più consapevoli ne fanno una vera e propria arte, una disciplina capace di stupire non solo per la manualità del gesto, ma anche per la conoscenza e la sperimentazione di tecniche di lievitazione, cotture e materie prime: mille varianti, tutte costruite a partire dal medesimo concetto di partenza. E sul palco del congresso milanese dedicato all’enogastronomia, giunto ormai alla sua settima edizione, si sono alternati proprio tre diversi pizzaioli, apportatori di tradizioni tanto diverse quanto sono le storie dei loro autori.
La bandiera della pizza napoletana classica è stata così innalzata da Gino Sorbillo della pizzeria omonima di via Tribunali di Napoli. Pizzaiolo di terza generazione, impara l’arte fin da piccolissimo da sua zia Esterina, la primogenita di nonno Luigi, da cui eredita il locale situato nel pieno centro storico della città partenopea: «La pizza è una questione di armonie; non può essere niente di più e niente di meno di quello che è». Evocando le parole di Esposito, Sorbillo cita così la qualità delle materie quale elemento imprescindibile delle proprie pizze: «A cominciare dal pomodoro, che noi facciamo rigorosamente a mano per mantenerne la giusta consistenza». L’impasto, però, per Sorbillo si fa partendo dall’acqua, sulla cui quantità si dosano lievito di birra e farina, rigorosamente di grano tenero: «Di solito utilizzo 1,8 chilogrammi di farina ogni litro di acqua. Ma la quantità può variare leggermente, a seconda delle condizioni del momento. Dopo aver messo il lievito nell’acqua, verso il tutto in un’impastatrice a braccia tuffanti, in grado di mantenere la morbidezza dell’impasto, e poi aggiungo circa 1,7 chilogrammi di farina. Il margine di un etto serve proprio ad adattare la composizione dell’impasto alle differenti situazioni ambientali».
Dalla farina, invece, parte per realizzare la propria pizza al metro, Luigi Dell’Amura, del locale Pizza a Metro di Vico Equense, anche lui erede di una lunga tradizione familiare di pizzaioli: «Il nostro impasto ha bisogno di una quantità superiore di acqua: 1,2 litri circa per ogni chilogrammo di farina. La lievitazione, poi, è più delicata, meno prolungata, e anche il calore del forno è diverso: dai 470-480 gradi delle pizze di Gino si passa ai 450 gradi delle nostre». Al di là delle questioni tecniche, dovute alla maggiore presenza di acqua e alla consistenza più morbida dell’impasto, la pizza al metro differisce da quella tradizionale soprattutto per la filosofia alla base della sua realizzazione. «È perfetta per sfamare molte persone in poco tempo: un metro e mezzo di pizza basta per circa una decina di commensali», spiega infatti Dell’Amura. «L’idea nacque tra le due guerre, nel panificio di mio nonno, che, per far mangiare figli e collaboratori durante le ore notturne, alternava il classico piatto di fagioli con la pizza. Poi l’intuizione di aprire una pizzeria vera e propria portò alla consacrazione della sua pizza al metro: un nome particolare, che ebbe origine a cavallo degli anni 1960 e 1970 da un’espressione consueta dell’allora direttore dell’orchestra da camera di Vienna, Carlo Zecchi. Costui era un frequentatore della nostra pizzeria e mio nonno, quando lo vedeva sopraggiungere da lontano, infornava immediatamente la pizza. Il direttore, allora, appena entrato nel locale, già pregustando la specialità di casa, ogni volta chiedeva quanti metri di pizza gli fossero stati preparati».
Ma la pizza non è solo napoletana o campana, appartiene di diritto a tutta la tradizione culinaria italiana. A testimoniarlo, il terzo ospite di questo appuntamento speciale di Identità Golose: Simone Padoan dei Tigli di San Bonifacio, in provincia di Verona. Qui, però, proprio la tradizione della pizza si sfuma in qualcosa di diverso, profondamente legato alla ricetta base, ma apertamente contaminato con le tecniche della ristorazione classica. «Senza una conoscenza approfondita delle basi non è possibile fare innovazione», ci tiene tuttavia a precisare lo stesso Padoan. Caratteristica principale della sua proposta, oltre all’utilizzo del lievito madre e di una farina di grano tenero semi-integrale macinato a pietra, è così la cottura a parte degli ingredienti di farcitura. «Un modo per esaltare ogni elemento della pizza», conclude Padoan. «La mozzarella di bufala, per esempio, è un formaggio molto delicato, che mal tollera l’esposizione ad alte temperature per lungo tempo. Perché non cuocerla, perciò, a parte, esaltandone così il gusto, senza alcun compromesso?».
I mille volti della pizza
Un veicolo di espressione immediata delle nostre specificità
Di Massimiliano Sarti, 11 Febbraio 2011
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