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Gli hotel nel main stream degli investimenti

Banche e fondi affinano le competenze in tema di ospitalità, ma occorre comunicare meglio le opportunità tricolori agli investitori internazionali

Banche e fondi affinano le competenze in tema di ospitalità, ma occorre comunicare meglio le opportunità tr

Di Massimiliano Sarti, 5 Ottobre 2017

Non solo Venezia, Milano, Firenze e Roma. L’interesse di operatori e investitori alberghieri cresce in tutta la Penisola, coinvolgendo destinazioni come Napoli e la costiera amalfitana, il cui appeal per la verità non è mai sfiorito, nonché intere regioni quali la Puglia, la Sicilia e la Sardegna. «Nella città partenopea, in particolare», racconta Giuseppe Rojo, «la recente apertura della metropolitana non ha solamente elevato la qualità dei trasporti, ma ha contribuito anche a riqualificare le aree urbane interessate dalla nuova arteria sotterranea. E oggi importanti player internazionali ci contattano per provare a entrare a Napoli. Non era mai capitato prima».
Più a sud, nella maggiore isola del Mediterraneo, sta crescendo l’interesse dei big dell’ospitalità: «Il San Domenico Palace, di cui abbiamo seguito l’acquisizione da parte del Gruppo Statuto, dovrebbe per esempio diventare presto un Four Seasons. Ma i brand internazionali si stanno espandendo in tutta l’isola, con un effetto a cascata che non accenna a diminuire», spiega sempre l’amministratore delegato e fondatore della divisione italiana dell’advisor Coldwell Banker Commercial (Cbc). Forse quella che sta peggio, attualmente, è proprio Roma, le cui difficoltà amministrative sono note a tutti. «La Città eterna si salva solo perché non è possibile pensare di svilupparsi in Italia senza passare dalla capitale. Oggi però probabilmente prima vengono Venezia, Milano e Firenze».
E anche dal punto di vista del credito, il mercato pare mostrare importanti segnali di vitalità. Alcune banche, in particolare, rivelano crescenti competenze in materia alberghiera, con staff preparati sia dal punto di vista delle acquisizioni, sia in tema di leasing. «Sale soprattutto l’attenzione con cui analizzano i business plan, che non vengono più giudicati solamente per il loro aspetto formale, ma scandagliati in profondità, valutandone scrupolosamente i valori e la sostenibilità», riprende Rojo. E le leve finanziarie appaiono buone: «In media, in caso di acquisizione dell’immobile, il capitale finanziato può arrivare fino al 60%, mentre per i leasing si sale fino all’80%. E in quest’ultima evenienza migliorano pure le condizioni di ammortamento, la cui durata si accorcia e viene a coincidere con quella del leasing stesso (per un minimo di 12 anni). In caso di riscatto, ci si ritrova quindi con un immobile in mano e agevolazioni fiscali anticipate».
Ma non ci sono solo le banche: i fondi internazionali, soprattutto le asset management company, sono oggi alla ricerca di opportunità d’investimento alternative alle classiche Londra e New York, dove i prezzi immobiliari sono saliti a livelli tali da ridurre drasticamente i margini. «Il nostro paese diventa così parecchio appetibile», spiega l’a.d. di Cbc Italia. Alle nostre latitudini, d’altronde, la recente crisi ha contribuito, al contrario, a rendere i prezzi di numerosi asset particolarmente competitivi. I rendimenti per gli immobili alberghieri messi a reddito nelle destinazioni primarie si aggirano quindi attorno al 4,5% – 5%, mentre in quelle secondarie si arriva facilmente al 7%-8%. E stiamo parlando di location affatto marginali, come per esempio la periferia di Milano o una città delle dimensioni di Genova.
Si tratta di valori peraltro che non dipendono solo dagli effetti della crisi, ma trovano spiegazione anche nella perdurante scarsa familiarità dei fondi italiani nei confronti del settore alberghiero: «Spesso mancano le competenze e quindi si tende a ritenere che il rischio di default, per gli asset dell’ospitalità, sia più alto che per gli uffici. Un approccio ampiamente scontato nei rendimenti attesi», spiega Rojo. «In realtà, la recente crisi ha dimostrato esattamente il contrario. Oggi a Milano e a Roma ci sono milioni di metri quadrati liberi, una volta sede di uffici che hanno traslocato altrove. Gli hotel invece continuano a funzionare. D’altronde, quando la location è buona, e il business plan adeguato, gli alberghi non possono certo delocalizzare. Al massimo si cambia operatore». Ciò detto, le cose stanno cambiando pure da questo punto di vista: non poche società di gestione del risparmio stanno infatti aprendo fondi ad hoc, dedicati all’alberghiero, con l’intenzione di sviluppare le competenze necessarie a trattare un settore d’investimento ormai sempre più main stream. Alcune sgr stanno persino pensando di provare a lavorare con i contratti di management, nonostante i vincoli statutari rendano qualsiasi operazione di messa a reddito degli immobili alternativa al leasing piuttosto complicata.
Le difficoltà, per contro, sono le solite, racconta sempre Rojo: l’incertezza del diritto, che non permette di pianificare con precisione i tempi dell’investimento. Ottenere un cambio di destinazione d’uso, il parere di una sovrintendenza o anche una semplice autorizzazione da parte dei vigili del fuoco sono tutte operazioni su cui è impossibile fare previsioni precise. Ogni comune, poi, ha regole proprie, diverse dagli altri.
Per l’a.d. di Cbc Italia non esiste invece una questione di scarsa qualità degli asset, come a volte si sente dire in certi contesti internazionali: «Un hotel è un bene strumentale», spiega Rojo. «Quindi conta soprattutto la location. Gli immobili da riconvertire, per di più, sono quasi sempre rifatti di sana pianta, lasciando integra unicamente la struttura portante. In questo modo spesso salgono anche di classe energetica, riuscendo persino a raggiungere i livelli massimi della certificazione internazionale Leed. E in tema di qualità costruttiva, sono convinto che il nostro paese non abbia nulla da invidiare al resto del mondo. A mio parere il problema è un altro: in Italia c’è carenza di operatori qualificati, in grado di presentare in maniera corretta le opportunità di riconversione agli investitori internazionali, garantendo loro, in particolare, la cura di tutte quelle procedure burocratiche che tanto spaventano non solo i capitali stranieri».
Un altro tema caldo è poi quello degli asset sottostanti ai cosiddetti prestiti non performanti (gli Npl) in pancia agli istituti di credito: in molti si aspettavano che il mercato ne sarebbe stato inondato, un po’ come è avvenuto in Spagna. Invece, non è stato esattamente così. O almeno solo parzialmente: «In realtà, a oggi una buona quantità di Npl è già stata ceduta a investitori internazionali, mentre altre transazioni sono in fase di definizione con realtà come Mps, la Banca Popolare di Vicenza e Carige. Solo che ci vuole tempo prima che se ne vedano gli effetti. Il resto dei crediti incagliati, quelli che non trovano sbocco immediato sul mercato, scontano le lentezze di una macchina giudiziaria tarata sulle esigenze del periodo pre-crisi, quando la quantità di casi da trattare era decisamente inferiore».
Infine un accenno ai rapporti tra gestori e proprietari degli immobili. In caso di sviluppo o riconversione, in particolare, chi deve far cosa? «Normalmente», conclude Rojo, «al conduttore spettano l’investimento in ff&e (mobili, infissi e attrezzature), mentre la proprietà si preoccupa di fornire l’hotel chiavi in mano. Ma naturalmente il punto di equilibrio varia a seconda dei soggetti coinvolti e soprattutto della location. In alcune destinazioni di pregio, per esempio, gli operatori sono a volte disposti ad accollarsi parte dei costi della ristrutturazione, magari in cambio di una riduzione del canone di affitto. In altri casi, quando si è in presenza di gestori particolarmente importanti, con garanzie bancarie alle spalle e disposti a firmare contratti privi di clausole di rescissione, l’equilibrio si può al contrario spostare a favore di questi ultimi».

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