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Franchising: non sempre fa rima con business

Di Stefano Lombardini, 25 Novembre 2005

A Milano, ottobre è il mese del franchising. Se ne è parlato per iniziativa di Job in Tourism nella cornice dell’Enterprise, design hotel di nuova generazione, inaugurando “Conference”, un nuovo ciclo di seminari di specializzazione per imprenditori del turismo. Il discorso è proseguito a ExpoTrade, salone italiano del franchising, svolto alla fiera di Rho-Pero per iniziativa di Confcommercio, mentre quello della Confesercenti si tiene in primavera a Roma.
Come consuetudine in fiera sono state presentate le statistiche del settore. Commenti entusiastici riguardo alla crescita del fenomeno si sono sprecati. Si parla continuamente di crescita e sviluppo assumendo come unici parametri il numero di franchisor e quello degli affiliati. Ma quello che viene utilizzato dagli analisti per misurare anno dopo anno l’evoluzione del fenomeno sembra purtroppo un parametro influenzato da dinamiche di tipo associativo-sindacale.
I dati, raccolti in modo asettico, escludendo ogni altra valutazione qualitativa, non tengono però conto del rilevante numero degli aspiranti franchisor che con gran faccia di bronzo autocertificano di possedere una “formula commerciale”, si iscrivono all’associazione di categoria, ma dietro non hanno alcun reale affiliato, finendo così per incrementare il numero degli operatori del settore in modo del tutto artificiale. Questa sembra essere una vistosa carenza nell’analisi effettiva del fenomeno, una carenza che può ingannare chi pubblica veline, ma non inganna i businessman, che infatti non accorrono a stipulare affari con i franchisor.
Le analisi inoltre tacciono su un punto assai rilevante. Lo sviluppo del franchising prende piede sostanzialmente con punti vendita dove sono coinvolti una manciata di addetti, anzi, spesso appena il titolare e un suo familiare.
Nell’ultimo decennio questo modello di franchising ha suscitato in Italia soltanto l’interesse del micro-commercio al dettaglio o dei piccoli servizi alla persona e all’impresa. Si è sposato quasi esclusivamente con le formule commerciali che avevano un numero di addetti di 1-2 unità, finendo per rappresentare soltanto un’opportunità di lavoro per giovani in cerca di occupazione. La formula del franchising in Italia garantisce generalmente 1-2 stipendi per punto-vendita, ma non produce utili d’impresa.
Restano escluse da un serio e proficuo coinvolgimento tutte quelle tipologie d’azienda dove devono essere impegnati molti più addetti, da 5 a 10, a 20 e più. Perciò bisogna trarne le dovute conclusioni. Si tratta di una formula che per interessare seriamente il settore “alberghi e pubblici esercizi” deve essere rivolta al segmento dei Master franchisee e non a quello dei franchisee individuali.
Con stupore, invece, è dato di assistere ancora a fiere e convegni dove si ascolta il solito ritornello: illustri conferenzieri impegnati a mettere in guardia i potenziali affiliati sui rischi che si possono correre firmando incautamente un contratto di franchising. La stessa legge di settore, la n.129 del maggio 2004, è scritta appositamente per offrire tutela degli affiliati rispetto a franchisor troppo disinvolti.
Questi due elementi mostrano che il franchising italiano guarda solo al commercio al dettaglio e a giovani inesperti in cerca di prima occupazione. Ma franchising in questo modo non fa più rima con affari. Proporsi così è del tutto inefficace, è un modello già stanco benché giovane, privo di mordente, non suscita interesse, non scatena business.
Prendiamo la ristorazione veloce: il franchising funziona solo con Mc’Donalds, motore capace di assicurare importanti fatturati. Solo questo brand è in grado di relazionarsi con Master franchisee d’area e non con micro-operatori di gestioni familiari. I brand concorrenti, di provenienza nazionale, non hanno grande visibilità. Molte sono le insegne commerciali che non raggiungono una massa critica di punti-vendita (intendiamo almeno alcune decine di unità). Molti sono anche i presunti franchisor che sviluppano punti-vendita al ritmo di 1-2 nuove aperture all’anno. Se questo è il quadro di sviluppo il franchising è un fenomeno oggettivamente zoppicante.
Il modello da seguire è quello di rapporti con grandi Master franchisee d’area. E per farlo occorrono formule ben collaudate. Come in certi Parlamenti c’è uno sbarramento elettorale al 5%, allo stesso modo sarebbe necessario introdurre un parametro deontologico anche nel franchising. Sotto una certa soglia bisognerebbe parlare di esperienze pilota interne alla casa madre.
Il franchising si potrà sviluppare nel ramo alberghi e pubblici esercizi solo rivolgendosi a Master franchisee. Questo significa per il comparto alberghiero rivolgersi non a singoli albergatori invitandoli a fare il grande salto da una gestione familiare a una di catena. È un azzardo dal quale ciascuno, se è padrone in casa propria, si guarda bene. Il mercato italiano è così pieno di vie d’uscita per salvare i bilanci delle gestioni individuali che nessun privato rischierebbe il suo business mettendosi nelle mani di una catena.
Presumere che nell’hôtellerie e nella ristorazione veloce vi possa essere la diffusione del fenomeno del franchising per il tramite di adesioni di gestori individuali è credere a un miraggio. Il canale di sviluppo delle catene alberghiere e, parallelamente, di un franchisor (che è la stessa cosa) è quello di proporsi a società di gestione che abbiano la natura di Master franchisee, di realtà massicciamente organizzate che possano condividere la mission del franchisor/catena.
Oggi, sul mercato italiano, questi potenziali Master franchisee sono le società di gestione e di management, quelle già attive e quelle che stanno nascendo. Queste realtà hanno lo stesso Dna delle catene, credono nelle regole di mercato, nella professionalità, danno opportunità di carriera a giovani talenti, portano innovazione, investono in confort e servizi, agiscono per raggiungere utili d’impresa attraverso la standardizzazione della qualità, attraverso i grandi numeri, attraverso economie di scala.
Il franchising crescerà solo grazie a queste società di gestione. Tempo perso, per chi vuole investire nel franchising, attendere la conversione dei gestori di alberghi a conduzione familiare.

lombardini@teamwork-rimini.com

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