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Formazione in hotel, perché e come farla: i consigli dell’esperto

Di Job in Tourism, 17 Giugno 2022

Quanto gli hotel italiani investono oggi sulla formazione del proprio team? E quali sono le best practice più innovative per garantire ai collaboratori adeguati percorsi di crescita professionale e personale? Può, proprio la formazione, essere uno strumento vincente nelle mani di aziende e managing director per superare quel gap di competenze tra domanda e offerta di lavoro che, oggi più che in passato, incide negativamente su meccanismi di recruiting già messi a dura prova dagli effetti della pandemia?
Ne abbiamo parlato con Gianfranco D’Anna, ex direttore d’albergo, una lunga esperienza nell’ospitalità, oggi formatore e consulente della sua DGF Hotels & Resorts Consulting, azienda specializzata nella consulenza alle aziende alberghiere e della ristorazione.

Domanda. Nell’attuale scenario del mercato del lavoro, caratterizzato dalla difficoltà per le aziende a reperire e trattenere talenti, la formazione interna può rappresentare una leva per attrarre i candidati?
Risposta. La formazione interna dovrebbe essere prima di tutto parte integrante dell’azienda, ma quasi mai è così, specie nel panorama alberghiero italiano, mentre all’estero, per esempio in Inghilterra, è assolutamente la normalità e lo è a tutti i livelli e per tutti i ruoli. Questo crea, da una parte, un deficit di professionalità a quei collaboratori che spesso si trovano ad affrontare le più svariate situazioni lavorative impreparati, mandati allo sbaraglio e, dall’altra, una sempre maggiore domanda di corsi di formazione da parte di chi, invece, sente la necessità di migliorare i propri obiettivi professionali. Nel contesto attuale, dove la domanda di lavoro supera purtroppo l’offerta, è chiaro che le aziende nelle quali la formazione interna è presente, conseguibile anche con la formula di formazione finanziata, riescono ad attirare un maggior numero di candidati. Non dimentichiamo che la formazione è sinonimo di efficienza, solidità, qualità, pertanto le aziende che percorrono questa strada e hanno tali caratteristiche sono percepite ancor più come aziende in grado di porre attenzione al benessere dei propri collaboratori. Quasi una rarità, in Italia, e a riprova di ciò basta vedere il continuo moltiplicarsi dei corsi di formazione proposti negli ultimi anni da vari enti privati e istituti universitari i quali sopperiscono alle lacune di molte delle imprese alberghiere italiane, e non solo.

D. Quali sono i trend principali in materia di formazione erogata dagli alberghi oggi?
R. Non ci sono trend particolari che ho potuto notare nei miei 25 anni di esperienza nel settore alberghiero e sono davvero poche le aziende che hanno una programmazione formativa dedicata ai propri dipendenti. Si tratta, per lo più, di grandi catene alberghiere straniere, spesso di matrice anglosassone, dove la formazione non è mai stata considerata come un costo, ma al contrario un investimento. In queste aziende esistono dei programmi formativi rivolti a chi vuole cambiare percorso professionale o reparto, a coloro i quali desiderano affinare le proprie competenze, soprattutto a livello manageriale, vi sono corsi dedicati al customer care, in alcuni casi anche corsi dedicati all’ambito commerciale, anche se sono abbastanza rari. Da questo contesto, ovviamente, è da escludere la formazione obbligatoria sulla sicurezza, per la quale un’azienda è chiamata a ottemperare a una normativa specifica, ma anche rispetto a questa materia fondamentale, non sempre le imprese alberghiere italiane sono allineate.

D. E in fatto di best practice innovative sperimentate dalle aziende?
R. La miglior pratica per una formazione efficace che ho potuto sperimentare, anche come parte attiva, è certamente quella di attività formative di gruppo e per reparto, attraverso incontri mirati nel tempo e costanti, dove si mantiene vivo l’interesse di chi è coinvolto in questi processi. È, infatti, relativamente efficace procedere con schemi formativi una tantum per poi dimenticarsene. Quanto cerco di fare personalmente è abbinare agli elementi tecnici le mie esperienze personali, raccontate attraverso aneddoti ed episodi lavorativi vissuti, e questo spesso vedo che stimola maggiormente l’attenzione e l’interesse da parte di chi ascolta. Un altro elemento che vedo risultare interessante sono le simulazioni di reali attività lavorative, come per esempio fare un check-in, elaborare il food cost di un menu, preparare un preventivo, a volte più di carattere tecnico e di back office, a volte più legate al servizio di contatto con gli ospiti e quindi di front office. Infine, uno schema vincente, applicato per esempio in Giappone, è lo scambio di ruolo e di reparto. In Italia è un sistema inesistente ma, avendone verificato l’efficacia in quel Paese, dove il concetto di servizio al cliente è sacro, mi sono reso conto di quanto efficace possa essere coinvolgere le persone in più ruoli, per tempi anche limitati e mirati, affinché possano comprendere bene tutti i processi interni di un’impresa alberghiera. Questo non solo aiuta in termini di formazione tecnica, ma soprattutto è la giusta “medicina” per porre le basi per degli ottimi team di lavoro, perché se si conoscono le fatiche altrui è più facile sentirsi parte di uno stesso gruppo di lavoro.

D. Si parla spesso di un skills mismatch tra quanto chiedono le aziende e i profili dei candidati in cerca di lavoro. Quali sono nell’ospitalità e nella ristorazione i ruoli per i quali questo gap è più evidente e come superarlo?
R. Non penso vi siano dei gap preconfezionati tra le necessità di un’azienda e i profili dei candidati, penso piuttosto che questi differenziali siano frutto di selezioni sbagliate da una parte e di come ci si presenta a un’azienda dall’altra. Quello che intendo è che, se parliamo di candidati, parliamo di una fase preliminare in cui ancora non ci conosce e in cui, se non vi è trasparenza, si rischiano solo dei guai. È da qui che partono i problemi, non credo che questi gap arrivino dal cielo. La poca chiarezza all’atto di un colloquio – purtroppo una costante in Italia, sia in relazione a quello che un’azienda propone sia in relazione a quello che un candidato racconta di sé, ancor prima attraverso un CV – è solo fonte di problemi. Non ci sono poi ruoli particolari dove questo è più accentuato e non è vero che non esistono persone qualificate in grado di fare match con le esigenze di un’azienda, esattamente come non è vero che non vi siano aziende in grado di soddisfare le aspettative di un candidato. Ci sono molte professionalità lì fuori, il solo problema è cercarle nel modo giusto, fare selezioni non sulla base di “bella presenza, simpatia o se sei più o meno gestibile”, ma farle sulla base del merito e ancor più sulle qualità umane che un candidato ha. Certo, non sempre ci si azzecca, ma è una buona arma per dei rapporti professionali gratificanti per entrambe le parti.

D. Cosa ne pensa dell’attuale dibattito sulla mancanza di personale nel settore turistico?
R. Sarò impopolare, ma vorrei sfatare il mito per il quale in giro ci sarebbero solo persone che non hanno voglia di lavorare o che manca il personale. È vero che la pandemia ha dirottato molte professionalità del nostro settore altrove, ma è anche vero che il mondo non si ferma e che vi sono comunque continui riposizionamenti e nuove leve in grado di sopperire ai danni causati da Covid-19. Ci sono delle figure probabilmente più difficili da trovare, e parliamo spesso dei lavori così detti più umili, che a parer mio sono i più importanti per un’attività alberghiera, e forse altre figure più facili da trovare, ma in generale anche qui basta cercare bene e si trova. Vedo piuttosto una notevole incapacità da parte di molte aziende nel procedere con selezioni efficaci fin da quando escono con annunci di lavoro spesso incompleti, poco chiari e a volte al limite del ridicolo. I candidati, invece, spesso ho riscontrato non essere in grado di intercettare l’offerta, e quindi esiste anche un problema di incrocio tra domanda e offerta, che non aiuta. Infine, in molti si lamentano dei sussidi statali, che renderebbero pigri e inattivi molti dei nostri concittadini, ma è chiaro che se una persona si trova a confrontare un sussidio, magari anche supportato dal lavoro nero, con uno stipendio da fame, penso che il risultato sia scontato. Gli stipendi, poi, sono rimasti ancorati ad almeno una quindicina di anni fa, purtroppo, mentre tra inflazione e incremento del costo della vita la capacità di spesa delle famiglie è stata erosa in maniera esponenziale, e questo è un dato di fatto su cui riflettere. Direi che più che il reddito di cittadinanza, il problema reale sia qualche dividendo in meno e qualche soldo in più in busta paga. Se stiamo meglio tutti, ne giova il sistema, è la regola in molto Paesi, ma non nel nostro.

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