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Focus sul mondo del beverage

Di Massimiliano Sarti, 23 Luglio 2009

Un consumo, quello degli alcolici, sostanzialmente abbinato ai pasti, con la notevole eccezione del momento dell’aperitivo e di quello ludico-serale. Ma anche una flessione notevole degli acquisti nel primo semestre del 2009 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente: un calo, peraltro, ancora più marcato di quanto già registrato dalle altre tipologie di bevande. È questo il quadro del mercato del beverage, così come è stato disegnato dai dati Nielsen presentati durante il recente Barmood 2009: l’evento milanese dedicato all’analisi del bere nel canale fuori casa.
Non certo buone notizie, dunque, per il mondo del food and beverage, e del bartending in particolare, ma a limitare, almeno parzialmente, la portata dell’allarme rimane il dato che, a tutto il 2008, più del 50% dei consumi di bevande alcoliche è ancora avvenuto all’interno del canale di mescita, nonostante il generale aumento della fruizione casalinga. Inoltre, l’analisi della cause di tale flessione dimostra come il calo delle vendite riscontrato sia dovuto più alle conseguenze dell’attuale difficile congiuntura economica, destinata primo a poi a concludersi, piuttosto che ad altre motivazioni di lungo periodo, pur presenti, legate, per esempio, all’aumento delle preoccupazioni di natura salutistica dei consumatori oppure alle ultime restrizioni normative in tema di consumo di alcolici. Secondo altri recenti dati Nielsen, riguardanti il mercato degli alcolici a esclusione dell’offerta di vino e birra, il fattore prevalente che spingerebbe gli italiani ad acquistarne di meno, sarebbe, infatti, quello economico: il 51% del campione dello studio avrebbe, in particolare, addotto a motivazione del calo del proprio consumo una diminuzione del numero complessivo di uscite, mentre il 20% avrebbe direttamente incolpato i prezzi eccessivamente alti delle bevande alcoliche. Il 29%, invece, avrebbe parlato di questioni legate alla salute e il 13% del timore di veder calare i punti della propria patente.
A perdere popolarità, nel primo semestre 2009, con una particolare accentuazione del trend negli ultimi due mesi, sarebbero stati soprattutto i brown spirit (brandy, cognac e whisky), i liquori dolci e cremosi, nonché gli spumanti e gli champagne (che pur si mantengono in cima alle prefenze assolute degli italiani), mentre reggerebbero altri prodotti tradizionali del beverage nazionale, come gli amari, le grappe, gli aperitivi e i vermouth, insieme agli spirit di categoria white, ossia al gin, alla tequila, alla vodka e al rhum. «La riduzione dei consumi», ha così spiegato l’industry manager consumer group Italy di Nielsen, Roberto Amedei, «è però particolarmente evidente nelle tipologie di locali più tradizionali, mentre i bar serali e i ritrovi trendy hanno registrato una maggior tenuta complessiva».
Tali differenze non fanno peraltro che confermare un dato tanto intuibile, quanto evidente: il consumo medio di alcolici differisce moltissimo, in quantità e qualità, tra le diverse tipologie di locali. «Secondo i nostri dati, in particolare», conclude Amedei, «nei ristoranti le vendite medie mensili di alcolici, che non siano vino e birra, si aggirerebbero attorno ai 6 litri, contro gli 8,2 litri dei bar diurni e i 31,1 litri dei locali serali non discoteche. Tali dati, tuttavia, non sono certo lo specchio di comparti uniformi al loro interno: il mercato del beverage italiano, infatti, è un mondo particolarmente frammentato, costituito da oltre 229 mila esercizi pubblici, spesso a conduzione familiare, tra cui un 10,1% rappresentato dall’offerta alberghiera. E la disponibilità di alcolici dei singoli locali si adegua alle preferenze di consumo del proprio segmento di riferimento, pur, c’è da sottolineare, con una buona possibilità di scelta complessiva per i consumatori. Nei ristoranti, per esempio, ci sono, in media, sei tipologie di amari differenti, mentre nei bar trendy ad avere mediamente sei varietà differenti sono i whisky. Inoltre, l’offerta varia notevolmente anche a seconda della regione geografica. È, insomma, quello del beverage, un mondo decisamente poco omologato, nel quale, per avere successo occorre soprattutto puntare su una specificità dell’assortimento atta a garantire la soddisfazione del proprio target di clientela, senza al contempo disperdere inutilmente le proprie risorse».

Sperimentare l’innovazione

Per tornare a crescere occorrono nuove strategie relazionali. «Non sono, infatti, solo le conseguenze della crisi economica a spingere gli italiani a frequentare meno i locali fuori casa, ma anche la scarsa capacità del comparto di innovarsi», ha raccontato nel proprio intervento al Barmood 2009, Fabrizio Valente, founder partner della società di consulenza specializzata nel mercato retail, Kiki Lab. «A livello internazionale ci si muove molto di più e molti sono gli esempi di locali originali, capaci di venire incontro alle mutate caratteristiche della loro clientela».
Tra le richieste più pressanti dei consumatori contemporanei c’è così sicuramente quella dell’efficienza. «Soprattutto in termini di tempo», ha continuato Valente. «È dal presupposto di soddisfare questa esigenza che è, per esempio, nato il Minibar di Amsterdam: un locale tappezzato di frigo-bar self-service. Anche le tecniche di fidelizzazione, inoltre, devono essere completamente cambiate. Altrimenti si rischia il paradosso delle fidelity card, di cui tutti consumatori, fedeli più che altro a loro stessi, ormai possiedono infinite varianti di altrettanti competitor. L’idea è così quella di passare dal concetto di fedeltà a quello di fiducia reciproca, di rapporto esclusivo cliente-fornitore. È da questi presupposti che è sorto a New York il City Winery: un locale che offre ai propri clienti l’opportunità di diventare partner nella realizzazione di un vino esclusivo. In questo modo il consumer cambia il proprio ruolo e da semplice cliente diventa prosumer, ossia un produttore-consumatore».
C’è poi il nuovo concept del retail liquido, ossia, secondo il founder partner di Kiki Lab, «del locale capace di segmentare la propria offerta, riproducendo nei suoi spazi una sorta di codice ipertestuale in puro stile web. Ne è un esempio il londinese Ministry of sound, discoteca dotata anche di aree più rilassate e intime per i momenti lontani dalla pista. Sempre direttamente dalle più recenti evoluzioni della rete arriva poi l’idea del socialtailing, che considera i clienti come parte di una sorta di community 2.0. Il caso più estremo è sicuramente quello del nuovissimo progetto Beer Bankroll: un birrificio dell’Illinois, negli Usa, che intende finanziare la propria realizzazione tramite la raccolta di sottoscrizioni annuali da parte dei consumatori, che, pur non diventando soci dell’impresa, vengono in cambio dotati di un forte potere d’indirizzamento delle politiche produttive e di marketing della società, allo stesso modo di quanto accade per i membri di molte community on-line».

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