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Felicità al lavoro, la nuova sfida delle HR

I dati dell’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano che descrivono uno scenario complesso per il mondo delle risorse umane, chiamato a un ripensamento profondo del rapporto tra persone e aziende

I dati dell’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano che descrivono uno scenario compl

Di Silvia De Bernardin, 18 Maggio 2023

È un dato su tutti a parlare: oggi solamente il 7% delle persone si ritiene felice al lavoro. Ovvero, soddisfatto di ciò che fa, legato all’azienda, pienamente ingaggiato. E non è, dunque, un caso che una persona su due abbia cambiato lavoro nell’ultimo anno o stia cercando di farlo. Perché – appare a questo punto evidente – dietro alle etichette che negli ultimi due anni hanno contrassegnato il dibattito nel mondo delle HR – dalle great resignation al quite quitting – c’è un malessere effettivo e diffuso, che richiede un ripensamento sostanziale delle dinamiche del lavoro da parte delle istituzioni e della politica, ma anche delle imprese. È il quadro che emerge dall’ultimo rapporto sullo stato delle risorse umane in Italia elaborato dall’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano presentato nei giorni scorsi e intitolato, emblematicamente, Vita, lavoro, felicità: disegnare una nuova relazione tra organizzazione e persone, del quale parliamo anche nel numero di questa settimana del magazine di “Job in Tourism”, che potete leggere qui.

Uno su due ha cambiato lavoro o intende farlo

“Speravamo – ha spiegato il Responsabile scientifico dell’Osservatorio, Mariano Corso – che dopo la pandemia il mondo trovasse un nuovo equilibrio invece ci ritroviamo in un contesto estremamente fluido e incerto, che non può non impattare il lavoro, epicentro dell’instabilità sociale. In questo scenario, le grandi dimissioni sono solamente la punta di un iceberg di un disagio ben più ampio”. La conferma arriva dai numeri, con il 46% delle persone che ha cambiato lavoro volontariamente negli ultimi 12 mesi (anche senza avere un’altra offerta al momento delle dimissioni) o che intende farlo da qui al prossimo anno e mezzo: un dato che schizza al 77% nel caso degli under 27 e che colpisce in modo particolare il settore dei servizi, come il turismo, e del manufatturiero, ma anche i profili ad alta digitalizzazione e il finance “a riprova che è definitivamente entrato in crisi il modello del lavoro a tempo pieno e col ‘posto fisso’”.

Perché si cambia

Si cambia – o si intende cambiare – nella maggior parte dei casi per uno stipendio e benefit migliori (43%), ma sempre più determinanti sono fattori come la ricerca di flessibilità (21%), il benessere fisico e mentale (19%) ed elementi collegati, dalla vicinanza al posto di lavoro (16%) all’opportunità di crescita e carriera, a quella di poter seguire le proprie passioni (13%). “La fragilità e l’incomprensione del contesto generale hanno cambiato la visione e le prospettive lavorative nel segno di una nuova flessibilità e della ricerca di un equilibrio tra lavoro e vita personale alla quale – ha evidenziato Corso – le persone danno risposte diverse”. Sempre più netta appare, dunque, la divisione tra i work-life integrator – coloro cioè che cercano una soluzione in una maggior integrazione tra i tempi della vita e quelli del lavoro – e i work-life separator, che invece propendono per una netta divisione di spazi e tempi. “A livello di organizzazione aziendale non è facile dare una risposta univoca a questi bisogni contrapposti ed entrambi legittimi che – ha spiegato ancora Corso – se non gestiti possono generare comportamenti patologici”.

Quiet quitter e job creeper

Ed eccoli, allora, i cosiddetti quiet quitter, coloro che “insoddisfatti, si limitano a fare il minino indispensabile e che, seppur sfiduciati e poco ingaggiati, non cercano un nuovo lavoro”: una quota di persone che – stima l’Osservatorio – oggi costituisce il 12% dei lavoratori dipendenti (pari a circa 2,3 milioni di persone). Dall’altra parte, i job creeper, quelli che invece non riescono a staccare mai e che rischiano di portare in azienda comportamenti tossici. In mezzo a questi due estremi, una quota molto ampia di persone che, pur vivendo in maniera più “fisiologica” il lavoro, sono comunque poco ingaggiate. Lo dimostra il dato secondo il quale anche chi cambia, nel 41% dei casi, continua poi a ritenersi insoddisfatto.

“Sono tutte situazioni – ha sottolineato Corso – che dipendono da un disallineamento tra i bisogni delle persone e l’organizzazione aziendale. Un gap tra le aspettative di flessibilità, equilibrio, spazio per le passioni individuali dei lavoratori e le risposte che, con i loro modelli manageriali e di leadership, le organizzazioni riescono a offrire, al quale dobbiamo prestare grande attenzione”.

Le soluzioni

Ma come? I ricercatori dell’Osservatorio, così come i responsabili HR che sono intervenuti alla presentazione dei dati, hanno convenuto su una serie di risposte – non più rimandabili. Al primo posto, il rilancio della cultura del feedback: un ascolto costante e bidirezionale che agisca da termometro del sentiment dei collaboratori, ma li faccia anche sentire ascoltati e coinvolti negli obiettivi aziendali e, di conseguenza, più partecipi e ingaggiati. Poi, la formazione attraverso percorsi di crescita trasversali che non solamente forniscano gli strumenti e le competenze che servono all’azienda, ma rendano le persone più consapevoli della propria professionalità e valorizzino i punti di forza e gli interessi di ciascuno rendendo l’esperienza lavorativa sempre più individuale e personalizzata. E, ancora, il favorire lo sviluppo di interessi extralavorativi e la conciliazione vita-lavoro attraverso, per esempio, la dotazione di servizi dedicati e il coinvolgimento delle persone nella definizione dei benefit aziendali.

“La crisi che stiamo vivendo – ha detto in conclusione Corso – non è tecnologica né sanitaria e nemmeno economica o geopolitica, ma ha radici più profonde, che hanno a che fare con un bisogno di benessere e significato. Per risolverla, non bastano gli strumenti classici delle risorse umane, ma bisogna avere il coraggio di ridisegnare l’organizzazione del lavoro e delle relazioni tra ogni persona e l’azienda”. Un cambio di passo – hanno infine indicato i ricercatori dell’Osservatorio – basato su pilastri fondamentali che vanno dal giusto riconoscimento economico alla flessibilità, dalla tutela del benessere psico-fisico alla valorizzazione di inclusività e diversità fino alla definizione di un progetto nel quale le persone possono riconoscersi e per il quale possano lavorare con soddisfazione: la ricetta per una nuova felicità al lavoro.

Per approfondire: Il talent shortage e la via del reskilling
La ricerca del’Osservatorio del Politecnico ha fatto focus anche su altri due aspetti caratterizzanti del momento storico che il lavoro sta vivendo: quelli del cosiddetto talent shortage e del mismatch di competenze. Una difficoltà a reperire persone – e a reperirle adeguatamente formate – che interessa in questo momento ben il 94% delle aziende italiane e che coinvolge in maniera molto forte soprattutto i profili dell’area tecnologica mettendo fortemente “a rischio la transizione digitale del Paese e l’uso dei fondi del PNRR”, ha spiegato la Direttrice dell’Osservatorio del Politecnico, Martina Mauri. Il mismatch di competenze riguarda tanto quelle hard che quelle soft e, oltre a provocare effetti negativi sull’organizzazione, si sta già traducendo in una perdita di fatturato per il 12% delle aziende. Tra le cause, il contesto globale, ma anche alcune peculiarità tipiche del mondo del lavoro in Italia, Paese sempre più vecchio, con pochi laureati (solamente il 27%) e ancor meno nelle discipline Stem, poco attrattivo per i talenti esteri e, a sua volta, caratterizzato da una forte emigrazione di lavoratori (pari a 5,8 milioni di persone), oltre che da un’alta percentuale di cosiddetti NEET, i giovani che non studiano e non lavoro e che il mercato del lavoro non riesce nemmeno a intercettare (circa 3 milioni di ragazzi). Anche in questo caso, la formazione e gli investimenti sulla capacità di far evolvere le professionalità e i profili di competenze dalle proprie persone attraverso programmi di upskilling e reskilling – hanno sottolineato i ricercatori – rappresentano la via principale che le aziende dovrebbero percorrere in prima persona, al di là dei necessari interventi di natura pubblica.

Per approfondire: Digitale e AI al servizio delle risorse umane
Nel contesto analizzato dall’Osservatorio del Politecnico, i ricercatori hanno messo a fuoco quale possa essere il contributo delle tecnologie più avanzate per far evolvere le risorse umane. La buona notizia è che le aziende italiane continuano a investire in tecnologia a favore di recruiting e formazione. Intelligenza artificiale e metaverso sono strumenti ancora poco utilizzati, ma destinati a tornare sempre più utili. Ad esempio, nello screening automatico dei CV e nel monitoraggio del clima aziendale così come nella messa a punto di percorsi di formazione aziendale e coaching personalizzati. “L’aspetto fondamentale – ha evidenziato Mauri – è che l’implementazione di questi strumenti avvenga non per ‘moda’ ma tenendo conto delle specificità aziendali e della qualità delle esperienze. Soprattutto i più giovani conoscono molto bene questi strumenti perché li usano nel tempo libero e si aspettano la stessa qualità. Se non la trovano, la ricaduta può essere negativa. Per questo – ha concluso – serve un approccio maturo e sempre più basato sui dati, che i collaboratori sono disposti a fornire volentieri se finalizzati a migliorare l’esperienza HR e la qualità del loro lavoro”.

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