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F&b, profitti e hotel: un triangolo possibile

La ricetta di chef Giuseppe Mancino per la sua storia di successo al Piccolo Principe di Viareggio

La ricetta di chef Giuseppe Mancino per la sua storia di successo al Piccolo Principe di Viareggio

Di Massimiliano Sarti, 26 Gennaio 2017

Tanta dedizione e voglia di crescere, unite a una buona dose di continuità. Sono i tre ingredienti principali di Giuseppe Mancino: giovane chef emergente del panorama culinario italiano, capace a soli 35 anni di vantare già due stelle Michelin, due forchette del Gambero Rosso e un cappello delle Guide dell’Espresso. Al timone del Piccolo Principe dal 2005, è l’anima dei successi ottenuti dalla ristorazione del Grand Hotel Principe di Piemonte di Viareggio, che oltre al locale stellato vanta anche l’offerta dei piatti toscani del Regina.

Domanda. Dopo tanti anni nello stesso posto come si fa a trovare ancora gli stimoli giusti?
Risposta. Nel nostro lavoro c’è sempre da fare. Si deve andare avanti senza stancarsi. Gli stimoli arrivano un po’ dappertutto: da parte della direzione e della proprietà, che mi lasciano la libertà di sperimentare nuovi percorsi. E da parte mia, che ho sempre voglia di migliorare. In fondo, è pure una questione di carattere. L’azienda inoltre va davvero bene: siamo uno dei pochi hotel in cui il comparto f&b genera profitti. Ma aiutano anche i tanti riconoscimenti che abbiamo ottenuto. Insomma è un mix di molte piccole cose…

D. Quali sono state le evoluzioni più significative che avete affrontato negli ultimi anni?
R. La più importante riguarda senz’altro il cambio radicale della nostra prospettiva di approccio al lavoro: all’inizio ci concentravamo soprattutto sul ristorante; poi abbiamo compreso l’importanza di allargare la nostra visione a 360 gradi, integrando i nostri obiettivi con quelli dell’hotel nel suo complesso.

D. Il che in termini pratici cosa ha significato?
R. Sono mutate un po’ di cose. In primis, ci siamo focalizzati molto sulle colazioni, lavorando sui dettagli e cambiando l’offerta ogni due giorni. Abbiamo poi introdotto un servizio snack attivo da mezzogiorno fino alle cinque-sei di pomeriggio. E abbiamo anche migliorato il momento dell’aperitivo, puntando a offrire ogni volta qualcosa di diverso. Ma non è finita qui: perché per la prossima estate abbiamo in serbo ulteriori novità.

D. A cosa state pensando?
R. Vorremmo costruire una versione di qualità dei classici pacchetti mezza pensione: cinque piatti per portata, con un menu a rotazione della durata di dieci – quindici giorni. Il tutto realizzato con materie prime di un certo livello.

D. E per l’inverno?
R. L’approccio naturalmente è diverso: lavoriamo di più sull’offerta tipica dei ristoranti da strada, ma contiamo anche sui segmenti business e incentive.

D. Poco fa ci ha raccontato quali sono i suoi ingredienti personali più importanti. In termini culinari, invece, quali sono le materie prime che ama di più?
R. L’ultima che ho impiattato. A parte gli scherzi: mi piacciono tutte. In cucina io cerco soprattutto il gusto, il territorio e l’innovazione. Perché in un ristorante importante come il nostro, dove un cliente può arrivare a spendere anche 50-60 euro per un singolo piatto, è essenziale riuscire a trasmettere delle emozioni vere. Senza effetti speciali, però. Semplicemente con la qualità di prodotti del territorio rielaborati in modi creativi, ma al contempo in grado di rispettare gusti ed esigenze degli ospiti.

D. Lei hai dichiarato spesso di ispirarsi ad Alain Ducasse. Perché proprio lui?
R. Perché è uno chef con idee fresche, in grado di fare estetica a partire da prodotti di stagione e del territorio. E perché la sua cucina è apprezzata in ogni angolo del globo.

D. Alcuni sostengono però che il suo approccio sia ormai un po’ troppo commerciale…
R. Difficile criticare una persona che gestisce una cinquantina di ristoranti nel mondo con tante stelle al suo attivo.

D. Torniamo alla sua cucina: lei viene dalla Campania; quanto contano, a suo parere, le origini culturali e geografiche di uno chef nella definizione del suo stile?
R. Moltissimo: quando nasci in un contesto mediterraneo e ti abitui fin da subito a determinati prodotti, costruisci già un palato di un certo tipo, che poi porti sempre con te.

D. Il gusto si può però anche apprendere con lo studio e l’esperienza?
R. Sì senz’altro. Ma a patto di avere la giusta cultura del cibo e la propensione a investire sul proprio palato, andando a mangiare in tanti ristoranti diversi. Il difficile, semmai, è altro.

D. A cosa si riferisce?
R. Al problema di tradurre efficacemente nella propria realtà quello che si impara. Le faccio un esempio: se un giovane chef, che ha lavorato per dieci anni da Ferran Adrià (uno dei principali esponenti della cucina molecolare, ndr), pensasse di poter applicare subito quanto appreso dal cuoco spagnolo in un locale appena aperto in un paesino sperduto di montagna, sarebbe destinato al più completo insuccesso. Un ristorante è come una squadra di calcio: bisogna capire dove e per chi si va a giocare.

D. Anche lei ha fatto così?
R. Certamente. Quando sono approdato al Piccolo Principe, prima ho cercato di comprendere il contesto in cui mi trovavo, modellando la mia proposta sulla realtà pre-esistente. E solo dopo aver costruito una solida base di clientela, ho cominciato a pensare a piatti innovativi. La morale è che prima si deve sempre ottenere la fiducia degli ospiti. Solo successivamente si può passare alla fase creativa…

D. Cosa pensa della grande esposizione mediatica che la professione del cuoco sta vivendo?
R. Ritengo che chi entra oggi nel turbinio della ristorazione è fortunato. Parliamoci chiaro: solo 15 anni fa il nostro mestiere era considerato di basso livello. Ora invece…

D. Nessun lato negativo, quindi?
R. Certo, c’è anche quello. Soprattutto perché la televisione ti fa vedere quello che decide lei. Ti dà le emozioni che vuole. Dietro a ogni piatto di Master Chef c’è sempre tantissimo lavoro. Se qualcuno pensa che in cucina sia tutto semplice, diventa difficile. L’altro giorno ho sentito un concorrente che voleva abbandonare il proprio posto fisso per inseguire la sua idea di arte e ristorazione… Improvvisarsi chef è quanto di più sbagliato si possa pensare di fare.

D. Per concludere: ci pensa mai alla terza stella?
R. No. Sono troppo concentrato sul lavoro e sulla sfida di dare ogni giorno qualcosa di più ai nostri ospiti.

Una breve biografia

Nato a Sarno nel 1981, Giuseppe Mancino frequenta la scuola alberghiera di Salerno, per poi iniziare l’attività professionale in vari prestigiosi alberghi e ristoranti, fino ad approdare nel 2005 al Grand Hotel Principe di Piemonte, come chef del ristorante Il Piccolo Principe. Con lui in cucina il locale ottiene una serie di importanti riconoscimenti, venendo tra l’altro inserito con ottimi voti nelle più importanti guide tra le quali il Gambero Rosso e l’Espresso. Nel novembre 2008 arriva quindi la conquista della prima stella Michelin, a cui segue sei anni più tardi la seconda. Chef Mancino è amante della cucina creativa, ma allo stesso tempo dai toni classici e in grado di non alterare i sapori dei prodotti. La sua è una proposta ricercata, le cui solide fondamenta poggiano sulla tradizione culinaria nazionale, arricchite da una fornita carta dei vini: i piatti, tutti realizzati con prodotti stagionali, spaziano dalla cucina tipica della Versilia e della Toscana a una rivisitazione della stessa in chiave più contemporanea. Suo punto di riferimento professionale è chef Alain Ducasse.

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