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F&B, dalla scuola alberghiera al Mandarin Oriental

L'esperienza di Manuel Tempesta, a capo del food&beverage del prestigioso hotel milanese

L'esperienza di Manuel Tempesta, a capo del food&beverage del prestigioso hotel milanese

Di Job in Tourism, 28 Giugno 2022

La passione per la cucina ai tempi della scuola alberghiera, a Padova. Poi, l’incontro con un professor di sala che gli ha trasmesso quella passione per il servizio che – via Londra – l’ha portato sette anni fa al Mandarin Oriental di Milano. Qui, oggi, Manuel Tempesta, 32 anni, ricopre dall’inizio dell’anno la carica di Director of Fine Dining, IRD & Banqueting, dopo essere stato prima Restaurant Manager. Da lui, che è entrato nel mondo della ristorazione con uno stage ai tempi della scuola come chef de rang al ristorante La Montecchia della famiglia Alajmo, quando prese la Stella Michelin, ed è poi volato in Gran Bretagna a completare per cinque anni la propria formazione, ci siamo fatti raccontare cosa vuole dire oggi occuparsi di F&B.

Domanda. Cosa significa ricoprire oggi un ruolo come il suo all’interno di una realtà come Mandarin Oriental?
Risposta. La responsabilità principale credo sia il riuscire a dare una guida al proprio gruppo di lavoro, settando standard e valori che il team possa poi condividere (questo anche in considerazione del fatto che la formazione all’interno dell’azienda oggi è fondamentale dal momento che quella preliminare è spesso più carente). Sempre più nell’hôtellerie, come nella ristorazione, penso ci si debba identificare con una determinata filosofia: saper creare un gruppo che condivide una visione è fondamentale per arrivare a risultati di successo. Di conseguenza, viene anche il recruiting, ovvero il riuscire a selezionare e poi mantenere nel gruppo di lavoro persone che possano esprimere e portare avanti quella visione. Poi, chiaramente, c’è lo studio del prodotto e la traslazione di quei valori nell’identità del servizio che si dà e il loro mantenimento nel tempo.

D. Cosa è cambiato – se è cambiato qualcosa – nella professione dell’F&B manager con la pandemia?
R. Per quanto riguarda il target che tocchiamo noi, quello che vedo essere cambiato è che è richiesta più qualità: oggi i clienti cercano ancora di più momenti speciali e un prodotto di qualità superiore, anche senza badare a spese. Questo chiaramente richiede più attenzione da parte nostra sia nella scelta dei prodotti che nel servizio, anche dal punto di vista di quel “tocco umano” al quale un po’ ci si era disabituati. E invece gli ospiti oggi hanno voglia di instaurare nuovamente quel tipo di relazione.

D. Quali sono le caratteristiche e le skill oggi imprescindibili per un F&B manager?
R. Sicuramente, l’esperienza sul campo, che deriva dal lavoro a contatto con le persone, è fondamentale per imparare a mettere a punto sia un certo tipo di savoir fair che di capacità di gestione delle diverse situazioni. Poi, bisogna conoscere bene i prodotti e instaurare un nuovo tipo di relazione con il ristorante e la cucina in modo che questi settori non vengano più percepiti come separati ma come un tutt’uno. Serve saper sviluppare un progetto rispetto alla linea che si vuole tenere mettendo a punto i vari step necessari per raggiungerla. Infine, la capacità di relazionarsi con le persone, sia con gli ospiti che che con i colleghi, anche imparando se necessario ad adattarsi e a modulare forme diverse di comunicazione. Questo aspetto, per esempio, è fondamentale oggi con i colleghi più giovani: bisogna trovare la chiave giusta per tirare fuori il meglio delle persone.

D. A proposito di giovani, cosa ne pensa dell’attuale dibattito sulla mancanza di personale nel mondo dell’ospitalità e della ristorazione?
R. È una situazione molto complessa, che non riguarda solamente la ristorazione ma tutti i lavori. Credo entrino in gioco diversi fattori, in primis, a mio avviso, quello dell’educazione: c’è una carenza di formazione non solamente a livello tecnico, ma anche in termini di valore del lavoro. Se non viene insegnato che i risultati arrivano col tempo, che bisogna iniziare a costruire dal basso, che la conoscenza è la base, è difficile pensare che si possa ottenere poi una qualche continuità. Personalmente, quello che vedo è una certa difficoltà ad assumersi responsabilità e ad affrontare situazioni complesse di petto in modo che possano diventare esperienze in grado di rafforzare il profilo della persona. Poi, certamente, in questo momento bisogna cercare di adeguare vecchie regole al contesto attuale. Più che parlare di retribuzione, che pure è un tema centrale, però, bisognerebbe parlare di prospettive e di possibilità di crescita professionale da dare alle persone. Ci sono colleghi – e questo succedeva già prima del Covid – che parlano del proprio lavoro come di una cosa a tempo, buona fino ai 35/40 anni perché poi ci sono la voglia e l’ambizione di fare qualcosa di diverso. Personalmente, non credo però si possa guardare a questa professione, soprattutto se si arriva a certe posizioni, come a qualcosa di estemporaneo e di passaggio: bisogna dare ai ragazzi l’ambizione di intraprendere questa carriera come un percorso che ha valore. Io ho avuto la fortuna di vedere all’opera e di lavorare con delle leggende del nostro settore che a 60 anni erano ancora in sala perché quella era la loro vita. Se vogliamo preservare questo tipo di professione, dovremmo cambiarne anche la narrativa esaltandone gli aspetti positivi. In fondo, tutti i lavori comportano un certo tipo di fatica e di sacrificio: la soddisfazione che si può ricevere dal nostro credo valga molto di più di tanti altri aspetti oggi considerati negativi, ma che tali non sono, semplicemente sono diversi da quelli di altre professioni.

D. Se dovesse dare un consiglio a un giovane all’inizio della carriera, cosa si sentirebbe di suggerirgli?
R. Di cercare di lavorare in posti nei quali fare davvero esperienza, cercando dei modelli di riferimento e di ispirazione che possano davvero insegnare loro il lavoro.

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