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Come servirsi della cottura per esaltare i sapori e non per mandare l’arrosto in fumo

Di Alessandro Circiello, 8 Febbraio 2008

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La cottura è da sempre un argomento delicato e centrale della gastronomia. Nel passato, per esempio, gli chef usavano quasi distillare gli umori dai cibi: i loro tempi di cottura erano lunghissimi, quasi estenuanti e le salse non erano altro che un concentrato di sapori, spesso estratto dagli scarti. Stessa cosa dicasi dei brodi, che venivano generalmente preparati recuperando tutto ciò che sarebbe altrimenti andato a male.
Tali tempi estremamente prolungati erano naturalmente necessari per ragioni igieniche, ma era soprattutto la filosofia gastronomica allora dominante a considerare principale compito dell’arte culinaria la trasformazione degli ingredienti, che, una volta presentati ai commensali, dovevano risultare irriconoscibili sia nell’aspetto sia nel sapore. Non a caso, il grande cuoco era soprattutto un grande saucier: una sorta di mago i cui condimenti erano in grado di trasformare i prodotti naturali in prodotti culturali.
Nella mia personale idea di ristorazione, però, il ruolo centrale della cottura si sfuma e, al contempo, assumono notevole importanza altri fattori, tra cui, primo fra tutti, la personalità degli ingredienti: senza buone materie prime, cioè, non può esistere per me una buona cucina. Coltivati o allevati nella maniera corretta, tali prodotti, inoltre, devono essere preparati secondo le tecniche più accurate e rispettose della salute dell’individuo e dell’ambiente.
La materia prima è, infatti, già di per sé espressione di cultura gastronomica: le differenti varietà di frutta, verdura e legumi che compaiono sulle nostre tavole sono il risultato di incroci secolari e così gli ovini, i bovini, il pollame e il pesce. La cottura, perciò, non deve trasformare ma rispettare la materia prima; non deve distruggere il sapore originale del cibo ma, anzi, esaltarne le caratteristiche.
Il tartufo, anche quello nero, non andrebbe, per esempio, cotto a lungo, ma semplicemente scaldato per metterlo in grado di sprigionare tutta la sua fragranza e il suo sapore. I vegetali, poi, che si possono mangiare anche crudi, dovrebbero essere solo scottati. È aberrante far cuocere per ore una zuppa o un minestrone: un buon brodo bollente versato su un piatto di verdure tagliate a cubetti regolari basta, infatti, a preparare un’ottima zuppa. Quanto alla cottura a vapore, poi, è a mio parare giusto che da noi non abbia avuto un grande successo: i piatti così ottenuti, infatti, non hanno né sapore né nerbo. Mi piace, però, il vapore affumicato, perché è in grado di aromatizzare delicatamente gli ingredienti: così il fusto del rosmarino dà risultati sorprendenti con il branzino, i riccioli di legno di pero bagnati con aceto di mele regalano finezza al tonno fresco e il legno di abete pennellato con il miele di Corbezzolo è eccezionale con l’agnello.
Nell’esaltare freschezza e aromi delle verdure è da non sottovalutare, poi, l’importanza del taglio, le cui caratteristiche condizionano tempi e modi del riscaldamento: un ingrediente ridotto a piccoli pezzi o a fettine sottili ha, infatti, bisogno di poco tempo, ma soprattutto si cuoce in maniera particolarmente uniforme. E in questo, la cucina giapponese può essere considerata una grande maestra.
La rapidità è requisito fondamentale anche nella cottura del pesce, che altrimenti si disidratata, privando la polpa di tutta la sua fragranza. Lo stesso vale per la carne che deve essere rapidamente scottata in modo che al suo esterno si formi una crosticina in grado di conservare i liquidi all’interno. È per questo motivo che la padella di ferro, essendo un ottimo conduttore di calore, rappresenta l’utensile migliore per scaldare le vivande, anche nel caso delle fritture.
In poche parole, utilizzare questi semplici accorgimenti significa rendere la cottura un’arte, capace di servirsi del calore per esaltare i sapori e non per mandare l’arrosto in fumo.

LA RICETTA:
Millefoglie di pasta e gamberi al sentore di lime e confit di lattuga

Ingredienti per 4 persone

Per la pasta: farina tipo 00 g. 400, vino bianco g. 10, brodo di crostacei g. 100
Per l’interno: 12 gamberi rossi, pomodorini ciliegia g. 200, olio extra vergine di oliva, aglio fresco, scorza di lime e sale qb.
Per il confit di lattuga: lattuga g. 400, zucchero semolato g. 10, succo di lime g. 10, chiodi di garofano g. 1, olio extra vergine di oliva g. 10, senape fresca g. 10, sale qb

Procedimento

Per la pasta: impastare la farina con il vino e il brodo freddo, quindi far riposare in carta pellicola per almeno 30 minuti.
Per l’interno: spadellare i pomodorini divisi in quattro con olio e aglio. Unire i gamberi sgusciati, privi del budello e tagliati per metà nel senso della lunghezza, regolare di sapore e aggiungere la scorza di lime.
Per il confit di lattuga: tagliare a julienne la lattuga, quindi spadellarla con l’olio, i chiodi di garofano, il succo di lime e lo zucchero. Ultimare con il sale, mettere il tutto in un contenitore e aggiungere la senape.
Preparazione del piatto: stendere e tagliare a dischetti la pasta. Cuocere in acqua bollente salata, asciugare e, con l’aiuto di un cerchietto di acciaio, comporre il piatto: si parte dalla pasta, poi si prosegue aggiungendo l’interno di pomodorini e gamberi, alternando questi elementi fino a copertura. Rigenerare in forno a 160°. Servire con le quenelle di confit alla lattuga e con decori di riduzione di aceto balsamico tradizionale.

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