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Come fare una squadra vincente

Di Barbara Brunati, 19 Gennaio 2007

Si conclude qui l’articolo dedicato all’originale esperienza di teamworking organizzata da Sol Meliá Italia. La prima parte è uscita sul numero 1 di Job in Tourism, p. 3.

La discussione sul concetto di teamworking, sviluppatasi nel team di Sol Meliá che ha partecipato alla regata sul lago di Como in conclusione del ciclo di seminari, prosegue concentrandosi sulla condivisione dei valori che va oltre la missione professionale e la visione aziendale, come dice Sebastiano Catinello, human resource manager per Sol Meliá Italia: «Tecnica e condivisione sono elementi importanti e unificanti, ma è l’esistenza di principi etici a uniformare l’operato di tutti affinché, accanto al risultato e all’organizzazione, vi sia anche un aspetto ambientale soddisfacente per tutti quanti».
Resta da analizzare la squadra in sé, ossia l’insieme dei collaboratori, il ruolo che ognuno di essi svolge, nonché il grado di responsabilità che determina il successo o il conflitto all’interno della squadra. Per Ivano Colombo, front office manager presso il Meliá Roma Aurelia Antica, l’autonomia è determinante, «ma solo a patto che alla base vi sia sempre un atteggiamento di responsabilizzazione collettiva e di condivisione dei valori aziendali, poiché ciascun membro del team è responsabile con le proprie azioni dei risultati ottenuti e deve contribuire a fare la differenza nel settore per garantire la soddisfazione del cliente».
Da buon esperto in materia di organizzazione, di incognite e di flessibilità, il docente del corso di teamworking Andrea Abbatelli precisa: «Non c’è una risposta unica, poiché molto dipende dal contesto in cui ci si muove. Se si tratta di un contesto fortemente dinamico e il gruppo si confronta con una grande variabilità, com’è il rapporto con la clientela nell’ambito alberghiero, essendo i comportamenti e le esigenze degli ospiti diversissimi tra loro, a volte sono necessarie decisioni rapide e soluzioni abbastanza complesse, poiché il cliente non sempre può aspettare. È quindi chiaro che, più aumenta il grado d’incertezza e variabilità, più è forte il bisogno per lo staff di prendere decisioni in maniera autonoma. Naturalmente, dare più potere alle persone (in gergo si parla di empowerment) significa correre più rischi per il leader, che si trova a dover confidare nella capacità delle persone di prendere decisioni in tempi veloci e senza consultarlo, altrimenti si ritroverà un gruppo di persone che non fa nulla se non attendere ordini, paralizzando totalmente il servizio e costringendolo a intervenire costantemente e ovunque. Più l’ambiente è dinamico, quindi, più il leader si trova a dover delegare, il che non è però così semplice: il leader deve comunque combattere la tentazione di accentrare per paura, per ansia; dall’altra, occorre che le persone mostrino grande professionalità, nonché maturità e consapevolezza di cosa significhi la delega, che non è mai carta in bianco, ma richiede un costante rapporto sinergico con il proprio capo. Per cui, riuscire a tarare il livello giusto non dipende solo dal contesto, ma anche dal tipo di team member che si ha davanti. Più maturo è, più si può andare verso la delega; meno maturo è, più bisogna essere prescrittivi e direttivi. Nel caso di un giovane, anche di alto potenziale, se lo si colloca in un gruppo ad affrontare un’attività complessa delegandogli molto, probabilmente si sentirà allo sbando perché ha bisogno di una guida forte, che gli dica esattamente cosa deve fare. Man mano che cresce e la maturità aumenta, la persona reclamerà sempre maggiore autonomia. A quel punto, il leader deve seguirlo e cedere, fino al livello che ritiene opportuno per poter gestire il servizio».
E se ci si trova di fronte alla lamentela di un ospite, quale atteggiamento è da considerarsi migliore? «In tal caso», risponde Stefano Nichetti, front office manager del Gran Meliá Milano, «io dico sempre che la sincerità porta lontano; far vedere all’ospite che ci stiamo prodigando per capire e, se nel farlo scopriamo che l’errore è nostro, ammetterlo e trovare la migliore soluzione per il cliente, nei limiti del possibile. Ormai l’errore si è verificato, non si può tornare indietro, ma possiamo fare in modo che il soggiorno continui bene, perché puntare il dito non ha senso. Un cliente sensibile comprende e, nella maggior porte dei casi, torna, consentendo così di realizzare l’obiettivo primo di chi fornisce servizi: la fidelizzazione».
È giunta l’ora del congedo; a vele ammainate, i partecipanti alla regata lariana possono tracciare un bilancio più che positivo dell’esperienza. Per Alessandro Misani, direttore del Gran Meliá Milano, e per il suo nuovo staff, è stato soprattutto un modo per entrare in sintonia; Ivano Colombo, front office manager presso il Meliá Roma Aurelia Antica, raggiunto al telefono, la ricorda come «completamento naturale di un’esperienza interessante e costruttiva iniziata in aula, avvincente grazie alla tecnica utilizzata (spezzoni di film da cui trarre importanti spunti di riflessione) che ha permesso a tutti noi di assorbirne i contenuti senza fatica. Ciò che mi ha più colpito è stato, infatti, il clima di grande coinvolgimento che ha caratterizzato il corso, rendendoci tutti molto partecipi».
Per Catinello rappresenta, infine, il miglior coronamento alla filosofia Sol Meliá, che lo human resource manager è ben lieto di ricordare: «Vorrei concludere questo ciclo di seminari parlando della sfida che stiamo cercando di realizzare in Italia a livello di risorse umane: quella, cioè, legata alla ricerca di un’autentica qualità del servizio. Oggi le strutture alberghiere offrono complessivamente servizi piuttosto omogenei e un prodotto uniformato; spesso sono il prezzo o la location a far decidere il cliente per una struttura, sapendo che il prodotto che riceveranno è lo stesso. Noi stiamo cercando di vincere questo appiattimento del mercato puntando sul nostro personale, facendo in modo che i collaboratori, nel momento in cui si pongono nei confronti del cliente, oltre ad assicurare professionalità, qualità e correttezza del servizio, si pongano anche e soprattutto come persone. Chiediamo ai nostri dipendenti di sovvertire una vecchia regola della struttura alberghiera, spesso vista come una sorta di teatrino dove tutti recitano. Non vogliamo figurini o manichini imbalsamati, ma persone che hanno un proprio carattere, da quello più spiritoso ed estroverso a quello più introverso, da quello più colto a quello più semplice; ognuno di loro, nell’approccio con il cliente, deve mantenere la propria personalità e il proprio carattere. Il cliente deve sentire di avere accanto a sé una persona, non una sorta di piccolo automa ben istruito, una persona che si pone nei confronti del cliente considerandolo una persona con esigenze spesso normali e magari banali, ma per lui importanti. Se riusciremo a creare nello staff questo tipo di mentalità, forse potremo veramente fare la differenza, portando il cliente a far scegliere gli alberghi della compagnia non perché hanno il televisore più bello, ma perché hanno un personale autenticamente accogliente, e questo fa sentire il cliente in un ambiente che non voglio definire familiare per non cadere in luogo comune, ma in un ambiente di persone che lavorano per altre persone. È questo che consideriamo importante». (Fine)

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