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Alberghi diffusi: a che punto siamo?

Il modello vive oggi un momento di stanchezza, ma il rilancio potrebbe arrivare dal Giappone dove cresce l'interesse per questo concetto di ospitalità

Il modello vive oggi un momento di stanchezza, ma il rilancio potrebbe arrivare dal Giappone dove cresce l'in

Di Massimiliano Sarti, 9 Marzo 2017

È una delle grandi promesse dl nostro sistema turistico nazionale: un’offerta di ricettività professionale, in grado di esaltare il racconto e l’esperienza delle destinazioni, preservando al contempo l’unicità dei luoghi e la sostenibilità socio-ambientale del business. La sintesi perfetta, in un mercato che dei concetti di esperienzialità, storia e immersione nella vita locale fa oggi la propria legge di base. Almeno a parole, perché l’albergo diffuso, pur continuando a dimostrare la validità del proprio modello, non si sta sviluppando con i ritmi sperati. Eppure, fino a poco tempo fa faceva incetta di riconoscimenti anche internazionali: come migliore pratica di crescita economica da trasferire nei paesi in sviluppo, in occasione del convegno «Helping new talents to grow» di Budapest nel 2008; e più tardi, nel 2010, il Wtm Global Award a Londra.
Di chi è perciò la colpa di tale rallentamento? «Di un sistema nazionale basato su normative regionali ancora molto indietro rispetto alla realtà dei fatti», racconta Giancarlo Dall’Ara, presidente dell’Associazione nazionale alberghi diffusi (Adi), e ideatore di questo particolare concept alberghiero. «Al momento in Italia si contano circa 130 alberghi diffusi, di cui un centinaio rappresentati dalla nostra associazione. Ma potrebbero essere almeno il triplo. Il problema è del contesto legislativo. Quasi tutte le regioni oggi hanno delle norme dedicate, ma molte di esse non sono complete. E quindi diventano inutili».
Piemonte, Lombardia e Toscana per esempio, ci racconta Dall’Ara, non hanno alcun regolamento attuativo. «E non stiamo certo parlando di aree marginali dal punto di vista turistico». Diverso invece il caso della Puglia, che ha un terzo degli alberghi diffusi della Sardegna nonostante oggi rappresenti uno dei modelli vincenti di sviluppo turistico italiano: «La sua è una legge buona», riprende il presidente Adi. «Ma non si può chiamare con lo stesso nome anche i centri di accoglienza degli immigrati… In Sicilia, invece, la norma ammette la presenza di alberghi diffusi pure in città e non solo nei piccoli borghi. Ma così si snatura una parte fondamentale del concept». E l’elenco potrebbe continuare a lungo. Certo, ci sono anche i casi positivi: come la Sardegna, che peraltro è stata la prima a normare il modello. E poi la Campania, il Molise, l’Emilia Romagna…
Nonostante i numerosi esempi virtuosi, la sensazione è però quella di un’occasione persa. Come troppo spesso accade alle nostre latitudini. Anche perché il modello in questi anni si è dimostrato particolarmente efficace, con arrivi e presenze in crescita in doppia cifra percentuale, persino nei momenti più difficili della crisi. «Solo nell’ultimo biennio, le cose sono un po’ cambiate», ammette Dall’Ara. «La competizione del web si è fatta feroce. E da questo punto di vista dobbiamo ancora migliorare. Forse in passato molti si sono un po’ adagiati, convinti che il concept bastasse da solo, tale era il successo conseguito».
E invece, anche in questo settore tanto promettente, il mercato non perdona. Ma probabilmente è solo una crisi di crescita. Anche perché, fa notare il presidente Adi, «il 90% delle nostre strutture rimane aperto tutto l’anno. E viste le destinazioni in cui operano (piccoli borghi spesso lontani dalle mete più famose, ndr), non è un dato affatto scontato». Segno, insomma, che il modello funziona ancora e intatte sono le possibilità di sviluppo.
Ma chi è l’imprenditore tipo di un albergo diffuso? «Nelle fasi iniziali era spesso una persona con origini familiari in un borgo, che partiva da una casa di proprietà per poi ampliarsi acquistando o affittando edifici limitrofi. Ora però si stanno affacciando anche imprenditori più giovani, magari del luogo, che, sull’esempio di quanto accade altrove, decidono di replicare l’iniziativa nella propria località. Si tratta in ogni caso di figure dotate di una grande passione per la destinazione e desiderose di raccontarne la storia all’esterno».
Al momento, tuttavia, mancano gli investitori internazionali: «Qualche anno fa c’era stato un forte interesse da parte di alcuni grossi operatori tedeschi», rivela Dall’Ara. «Ma poi la cosa non è decollata. E chi si era avvicinato ha successivamente preferito altre soluzioni». Come è accaduto, per esempio, a Castelfalfi, dove proprio in questi giorni si sta inaugurando il nuovo 5 stelle Tui Blue Selection. «Pure le banche avevano aperto in passato delle linee di credito dedicate a nuovi sviluppi, ma non hanno avuto grande successo», continua Dall’Ara. «Invece da un paio di anni a questa parte è presente un prodotto assicurativo ad hoc, a cura di una grande compagnia. E questo mi fa ben sperare in una ripresa di interesse da parte degli istituti di credito». Non mancano infine i bandi regionali, che spesso sfruttano i fondi europei a disposizione. «Noi come associazione però non li sollecitiamo mai. Perché siamo convinti che gli alberghi diffusi debbano prima di tutto essere delle imprese economicamente sostenibili».
L’identikit della struttura tipo ha un numero limitato di camere, mediamente una ventina: un’offerta sobria ma di buon livello; gli edifici infatti sono tutti oggetto di operazioni di ristrutturazione conservativa. Oltre alle punte di diamante Sextantio, a Santo Stefano di Sessanio, e le Grotte della Civita a Matera, che a pieno diritto afferiscono al mondo del lusso, si contano così molti hotel a 4 stelle. Indizio, se ancora ce ne fosse bisogno, che non è la qualità a difettare. E lo testimonia anche il fatto che oltre il 50% degli ospiti è normalmente di origine internazionale: «Numerosi sono i viaggiatori con una buona consapevolezza del luogo in cui soggiornano. E c’è persino chi organizza dei veri e propri tour di albergo diffuso in albergo diffuso: dai trulli pugliesi, alle dimore medicee toscane, fino ai casolari della Romagna…».
Insomma, se il momento non è certo dei migliori per gli alberghi diffusi in Italia, il modello rimane pur sempre valido e le strutture esistenti continuano a funzionare. L’espansione, per contro, si è un po’ fermata. La speranza ora viene dall’Estremo Oriente, ci rivela sempre Dall’Ara. Non è la prima volta che il concept albergo diffuso viene esportato all’estero (ci sono strutture in Spagna, Croazia, Francia…), ma è dal Giappone che oggi arrivano i maggiori segnali di interesse: «Il loro è un contesto per certi versi simile al nostro, con tanti piccoli borghi ancora abitati ma in progressivo declino demografico», conclude il presidente Adi. «Dal paese del Sol levante ho già ricevuto un buon numero di richieste di riconoscimento. E anche le istituzioni locali, ultimamente, si stanno muovendo. Sono stato in Giappone a novembre ma ci tornerò ancora tra poco». Insomma, il paese dei samurai potrebbe davvero cambiare nuovamente lo scenario in maniera radicale, rinnovando l’entusiasmo per l’albergo diffuso anche al di fuori dei confini nipponici. «E io di natura sono sempre ottimista!».

Il concept in breve

L’espressione albergo diffuso ha origine in Carnia, nel 1982, all’interno di un gruppo di lavoro che aveva l’obiettivo di recuperare turisticamente case e borghi ristrutturati a seguito del terremoto degli anni ’70. Il modello è stato in seguito messo a punto dal docente di marketing turistico Giancarlo Dall’Ara e ha una storia che affonda le radici nello specifico dell’ospitalità italiana (calda e relazionale). È stato riconosciuto in modo formale per la prima volta in Sardegna, con una normativa specifica del 1998.
In estrema sintesi, si tratta di una proposta concepita per offrire agli ospiti l’esperienza di vita di un centro storico di una piccola città o di un paese, potendo contare su tutti i servizi alberghieri (accoglienza, assistenza, ristorazione, spazi e servizi comuni per gli ospiti), nonché alloggiando in case e camere che distano non oltre 200 metri dal cuore della struttura diffusa: lo stabile nel quale sono situati la reception, gli ambienti comuni, l’area ristoro…
Ma l’albergo diffuso è anche un modello di sviluppo del territorio che non crea impatto ambientale. Per dare vita a un progetto di questo tipo non è infatti necessario costruire niente, dato che ci si limita a recuperare-ristrutturare e a mettere in rete quello che esiste già. Inoltre un albergo diffuso funge da presidio sociale e anima i centri storici, stimolando iniziative e coinvolgendo i produttori locali considerati come componente chiave dell’offerta. Proprio per questo motivo un albergo diffuso non può nascere in borghi abbandonati, ma deve offrire un vero e proprio stile di vita: una proposta fortemente destagionalizzata, in grado di generare indotto economico e contribuire al ripopolamento dei borghi.

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