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Accoglienza: una missione di vita

Sfogliamo insieme ad Adolfo Lodigiani il grande libro della storia dei portieri d'albergo

Sfogliamo insieme ad Adolfo Lodigiani il grande libro della storia dei portieri d'albergo

Di Gianluigi Cacciotti, 24 Novembre 2016

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e doveste mai parlare con qualcuno che ha vissuto di ospitalità, molto probabilmente vi direbbe che la stessa non si improvvisa, non si inventa da un giorno all’altro. L’ospitalità è una predisposizione mentale a cui dobbiamo tendere, per poter arrivare al cuore dell’ospite, impreziosendo la sua esperienza al di fuori delle mura domestiche.
Adolfo Lodigiani (classe 1932) lo sa bene: lui che fin dai primi momenti di vita professionale ha fatto dell’accoglienza una missione di vita. Studente non troppo modello, ma precoce osservatore del mondo che cambia, pronto a respirare internazionalità fin dai primi passi, ben prima di accomodarsi dietro il bancone di un hotel. La voglia di viaggiare e imparare fu il carburante che accese un’esistenza vissuta sotto i riflettori del mondo alberghiero: 18 anni di presidenza nazionale delle Chiavi d’Oro, sei anni di vicepresidenza internazionale prima di salire sul gradino più alto dell’organizzazione mondiale, spinto nella candidatura dai colleghi israeliani.
Una posizione privilegiata da cui osservare i cambiamenti di una professione che all’epoca era capace di raccogliere ammirazione sia dalle istituzioni, sia dalle altre categorie di settore: erano i tempi della Bella Italia, dei piantonamenti in stazione o negli aeroporti, dei bus verso Pompei riempiti in una mattinata, dei clienti che ti chiamavano per nome e ti scrivevano per augurare buone feste… Sembra un film di fantascienza quel mondo che racconta Adolfo, mentre scorriamo insieme il grande libro che tiene in salone: una raccolta di ritagli di giornale, articoli e menzioni sulla figura del portiere d’albergo, testimonianze dei suoi viaggi, condite da vicende curiose e retroscena.
Su tutti l’episodio dell’avvocato Agnelli raccontato da un collega sulla stampa nazionale, che alla richiesta di un taxi si vide arrivare una Renault. Senza farsene accorgere, di tasca sua pagò la corsa al tassista e chiamò nuovamente la compagnia, pregando di far arrivare un’autovettura Fiat.
Il portiere d’albergo era tutto qui: una figura poliedrica e discreta, capace di vestirsi da confidente, da mentore, da amico e assistente, senza perdere la sua lucentezza di dipendente e responsabile dell’esperienza turistica.
Continuano a scorrere le pagine, quali finestre temporali che scorgono pian piano l’insieme degli alti e bassi della professionalità alberghiera: dal momento in cui anche le donne fecero la loro comparsa dietro il bancone fino agli incontri con il Presidente della Repubblica, dalle aperture dei grandi alberghi (ormai istituzioni del panorama ricettivo romano) alle prime avvisaglie di automazione delle procedure di check-in e check-out (con conseguente messa in cantina della figura del portiere d’albergo).
«Ah, ma già all’epoca si parlava di certe cose?», chiedo sorpreso. «Sai quanti incontri, tavole rotonde e interrogazioni di settore abbiam fatto per cercare di promuovere e in alcuni casi difendere la professione? Una volta c’era molta considerazione per le associazioni e per i rappresentanti delle categorie, tant’è che la nostra realtà era quasi invidiata dagli altri per come eravamo attivi e organizzati».
Viaggi e congressi che hanno toccato tutti i continenti, spingendo l’immagine dell’ospitalità all’italiana in Messico, Giappone, Marocco, Sud Africa, India, Egitto… Il tutto avendo dalla sua parte il benestare della proprietà dell’hotel capitolino Metropole, che intravedeva nei viaggi di Adolfo una primordiale ma efficace forma di promozione internazionale: «Non conteggiava le mie assenze nei giorni di ferie». Lodigiani intuisce la mia sorpresa, nascosta dietro l’amarezza di chi invece le ferie le ha dovute chiedere anche solo per frequentare un semplice corso Ebtl. Altri tempi, mi ripeto a ogni giro di pagina.
Puntuale però arriva la sua biografia a tranquillizzarmi che nulla è perduto, quasi si fosse accorto del disagio intergenerazionale: lui, figlio di impiegato di banca e già promesso sostituto nello stesso istituto, scappò da Bellagio verso la già multiculturale Milano, da dove, nonostante i buoni guadagni come aiuto portiere al Plaza («rifugio dei nuovi arricchiti»), decise di voler tentare il salto di qualità.
Dal Plaza di Milano all’Inghilterra: 1 sterlina di guadagno alla settimana e 2 sterline spese ogni volta per andare a Londra a consegnare curricula. Senza contare il razzismo mascherato da “Respectability” e i controlli alla frontiera per scongiurare flussi incontrollati di immigrazione lavorativa: la Brexit e l’astio per i continentali viveva anche allora. Dall’Inghilterra allora alla Germania: prima al Vier Jahreszeiten di Amburgo e poi all’Excelsior di Colonia.
Da lì il passo per la grande hôtellerie italiana fu breve, e la chiamata a Roma quasi un segno del destino: l’hotel Metropole era uno degli alberghi più moderni d’Italia, con l’aria condizionata in tutte le stanze, garage e 308 camere. Adolfo diventerà un’istituzione, collaboratore amato da tutti. Persino la neo-entrata Starhotels dovette inchinarsi a cotanta storia: «L’ingegner Fabri mi salutò cordialmente, dicendosi onorato che una persona del mio valore servisse lì dentro e fosse rimasto con loro. Pochi giorni dopo fece scendere dei manovali da Bergamo per farmi costruire un angolo apposito, dove gestirmi i miei collaboratori. Fu una cosa totalmente inaspettata, poiché si parlava già di tagli e unificazione dei servizi dietro un unico bancone».
Una storia d’amore carica di aneddoti e curiosità: dai carabinieri fatti vestire da facchini per arrestare il manigoldo di turno, fino al cliente svizzero a cui fu fatta recapitare in giornata (!) la sua valigia, rimasta in hotel per una svista del facchino (salvo anche lui per mano di Lodigiani).
Una storia lunga 33 anni, che tradisce però la carica emotiva nel finale amaro (e più aderente ai nostri giorni di spending review e sangue): «Ai miei tempi il Metropole aveva 267 persone di personale su 308 camere. Era una proporzione normale per un albergo di quella portata avere di media una persona per ogni camera o posto letto. Adesso sai quanti ne hanno? 42! Poiché il resto è dato tutto in gestione».
«E della figura del portiere d’albergo oggi, che ne pensa?». «In Italia c’è ancora paternalismo», conclude Lodigiani. «Oggi trovi aziende che in base a chi la gestisce il giorno prima sei al lavoro e il giorno dopo sei a casa per far posto a chissà chi… Non c’è una organizzazione seria! Mi vengono in mente questi grandi gruppi internazionali, come Four Seasons: sono ambienti assai diversi, che rivendicano una professionalità sopra ogni cosa. A partire dall’alto: il direttore d’albergo deve essere il centravanti della squadra, deve essere preparato! Qui in Italia non ti preparano. L’unica scuola che mi viene in mente è quella di Losanna, che ti forma davvero. E poi a scendere anche gli addetti al ricevimento: un conto è poter parlare e interagire con il cliente, un conto è sapere quelle due – tre parole e poi troncare il rapporto umano alla consegna delle chiavi».

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